Dopo esattamente dieci anni, lo scorso 5 luglio si è tenuto ad Ankara il terzo vertice intergovernativo tra Italia e Turchia. Se certamente è l’eco del conflitto russo-ucraino a far da sfondo, l’ampiezza e l’importanza dei dossier discussi per l’occasione segnalano sia le radici ben più profonde sia gli orizzonti ben più lontani di tale riavvicinamento rispetto a mere contingenze belliche. Pertanto, anche alla luce dell’entusiasmo bipartisan posteriore al vertice, è rilevante capire con quale postura i due Paesi si siano seduti al tavolo, quali siano le proiezioni nei rapporti bilaterali e quali le implicazioni strategiche per l’asse euroatlantico.
L’amico indispensabile
Come al momento dello screzio Draghi-Erdoğan di tre mesi fa, media e opinione pubblica non hanno mancato di rimarcare il volteggio retorico utilizzato dal Primo Ministro italiano, il quale ha ora definito la controparte turca come «partner, amica, alleata». Ciononostante, se mai effettivamente logorato da etichettature tra leader, il processo di rinsaldamento delle relazioni italo-turche è piuttosto derivante dal motu proprio generato dai profondi vincoli geopolitici e retroterra storici che legano Roma e Ankara. Non a caso, la gaffe di Draghi ha avuto il merito di dare un immediato impulso ulteriore ai già frequenti incontri bilaterali, ministeriali e diplomatici: dalle varie “strizzate d’occhio” al G20 di Roma e ai seguenti vertici internazionali alle visite riparatorie dei Ministri Di Maio e Guerini in Turchia, è palese come il governo italiano abbia (ri)preso consapevolezza della crucialità del ruolo turco in materia di sicurezza militare, immigrazione ed economia. Per quanto rappresentino spinte ulteriori, ad avvicinare ulteriormente i due Paesi non sono solo le prospettive traumatiche derivanti dalle vicende ucraine ma anche il fatto che, per raccogliere i dividendi dei successi tattici del proprio attivismo in politica estera, Ankara stessa debba ora ricercare nuovi equilibri e sponde di fiducia per essere premiata nel medio-lungo periodo. Tradotto, pur rimarcando un’endemica inesistenza di pensiero geopolitico e presentandosi in una posizione di debolezza tattica rispetto alla controparte turca, il successo del vertice dalla prospettiva italiana risiede nella possibilità di ricordare al Paese anatolico di essere suo fondamentale partner commerciale di primordine, oltre che tra i più fidati alleati nel controbilanciare la “turcofobia” euroatlantica.
Imperi mai o mal sopiti?
Al netto di tutto, i legami tra Turchia e Italia sono primariamente di natura strategica, laddove gli scenari sono comuni ma i modus operandi diametralmente opposti. Eppure, i recenti sommovimenti che annettono dinamiche regionali e globali, cosicché la crisi ucraina, la questione del Mediterraneo Orientale, il caos libico e gli altri dossier all’ordine del giorno sembrano consolidare le basi per una coesistenza interferenziale piuttosto che schiudere un’aperta competizione. Da un lato, la rinnovata proiezione estera di Ankara è sì vocazione imperiale atavica dai tempi di Osman, ma anche e soprattutto necessità di sopperire alle lacune in termini di risorse e schermi difesivi che attanagliano un cuore anatolico con perenni minacce e archi di instabilità. Allo stesso modo, seppur non parimenti definibile come “mina vagante” e certamente non periodica minaccia verso i propri stessi alleati, Roma condivide con la Turchia una necessità: proteggere e/o coltivare i propri interessi senza dover subire i tempi dilatati richiesti da quegli alleati e partner che agiscono secondo imperativi strategici non (più) direttamente legati alla faglia afro-euroasiatica. In sostanza, il punto d’incontro è proprio nelle spaccature dove per secoli i lasciti imperiali hanno saziato altre potenze, ora però assorte in altri trame geopolitiche.
Approfittare delle distrazioni altrui
Esempio lampante è la Libia, ginepraio caotico e teatro di sfida tra potenze regionali, dove la Turchia ha saputo inserirsi a suon di droni ed equilibrismi politici, ritagliandosi spazi d’influenza notevoli anche a scapito degli interessi italiani. Tuttavia, se paragonata alle divergenze ben più profonde con l’agenda di Paesi come Francia, Russia ed Emirati Arabi Uniti, quella di Roma e Ankara nello “scatolone di sabbia”è una condizione che trova diversi punti di convergenza, tra tutti l’immigrazione e l’approvvigionamento energetico – temi che fungono per entrambe da aghi della bilancia anche per i rispettivi equilibri sociopolitici interni. Il primo trova la propria continuità anche lungo tutta la cintura del Sahele Corno d’Africa, scenari apparentemente secondari ma spesso vere fonti originarie di instabilità maggiori e di vuoti di potere da sfruttare. In tal senso, una partnership privilegiata con un attore come la Turchia, capace di penetrarvi attraverso il binomio export militare e soft power culturale, può regalare a Roma un rilancio in quelle aree da troppo tempo dimenticate. Il prezzo da pagare altro non è che un più aperto riconoscimento della pretesa di potenza da parte Turca, oramai dato di fatto. Al contempo, però, Roma potrebbe ricavarne una propria leverage dimostrandosi partner affidabile di Ankara in quegli spiragli di opportunità apertisi con prepotenza grazie alle distrazioni di Mosca e Washington verso le congiunture ucraine e cinesi. Perché è noto che, nei periodi in cui gli egemoni tentano di spostare i poli, sono le medie-piccole potenze a poterne approfittare.
L’energia che accontenta tutti
Contrariamente ai venti di guerra e agli screzi tra la Turchia e i suoi vicini europei e mediorientali che spirano da almeno due anni sul Mediterraneo Orientale, le posizioni turche e italiane sembrano ora poter convergere paradossalmente proprio su quei punti precedentemente ostili ai due interessi nazionali. Utile ricordare che Roma era sostenitrice dell’originario progetto per il gasdotto East Med, volto a bypassare il suolo turco per giungere da Israele in Europa direttamente attraverso Cipro e Grecia. Ciononostante, la guerra in Ucraina ha portato il TANAP(Trans Anatolian Pipeline) – la conduttura di gas che dal Mar Caspio si collega al TAP in Puglia – ad accrescere la portata a 29,7 miliardi di metri cubi. Questo a vantaggio dell’idea turca di ergersi a hub energetico indispensabile per i flussi di energia alternativi a quelli russi verso l’Europa. Un ruolo, per di più, riconosciuto anche dagli Stati Uniti, i quali hanno affossato le pretese israelo-egiziane di esclusività di transito dal giacimento off-shore Leviatan. Il tutto, ovviamente, in cambio di un gradito riavvicinamento tra Turchia e Israele in ottica di appalto della sicurezza regionale in chiave anti-iraniana. Diretta conseguenza è quindi anche un tacito consenso per la “geopolitica dei tubi” che Ankara mira a costruire sulla base degli accordi con la Libia per le ZEE e sulla scoperta del giacimento di gas Sakarya nel Mar Nero. È quindi in tale spiraglio che Roma può agire da partner riservato, accontentando le richieste dello stesso Erdoğan per una collaborazione con ENI nella costruzione di impianti sottomarini condivisi tra i due Paesi. Con una via della Seta dal percorso incerto e in attesa di una reale rotta artica, la Turchia rimane crocevia per i traffici da Oriente a Occidente, nonché quindi indispensabile pedina di disturbo nei confronti dell’espansionismo cinese.
Lo sguardo da Washington
Le dinamiche sopra discusse segnalano di riflesso come, davanti alle pretese russe e cinesi di ridisegnare gli equilibri internazionali, un’accresciuta rilevanza della Turchia “nel mezzo” possa essere cosa gradita agli Stati Uniti. Di conseguenza, anche un disgelo tra Turchia e Italia è funzionale alla riproposta di un bastione mediterraneo, tornato improvvisamente ventre molle della NATO. Riprova in tal senso è il fatto che quest’ultima abbia visto aprirsi un nuovo fronte pericoloso a nord, il quale ha imposto un’accelerata sino a qualche mese fa impensabile per l’ingresso di Svezia e Finlandia nell’Alleanza Atlantica. Se il dibattito sulla “questione curda” funge da utile espediente retorico interno per le varie leadership nazionali, il ritiro del veto turco è piuttosto frutto delle concessioni da Washington: incontro scenografico tra Erdoğan e Biden, riammissione nel programma degli F-35, luce verde all’espansione della zona di sicurezza nel Nord della Siria, rimozione di tutte le sanzioni comminate nello scorso trienni e occhi chiusi su quelle non profuse da Ankara verso Mosca. Questo perché, ricorda Santoro su Limes, gli Stati Uniti riconoscono come la Turchia sia «l’unico paese al mondo ad avere l’interesse e le capacità per contenere e contrastare la Russia in quasi tutti i quadranti geopolitici che hanno rilievo per Mosca», ma anche come le sue vulnerabilità di media potenza rimangano cavillo fondamentale per avvalersi delle smisurate ambizioni turche per i propri fini tattici e di stroncarle qualora diano prova di eccessiva insubordinazione.
Le finestre per Roma
Pertanto, se l’Italia vuol dimostrare la propria fedeltà atlantica, il momento è propizio per farla coincidere con un pragmatico riavvicinamento alla Turchia a favore del proprio interesse nazionale. Come la superpotenza, anche Roma potrebbe agire riconoscendo due capisaldi. In primis, il fatto che la proiezione di influenza a nord del Mar Nero in chiave antirussa rimanga alla base dell’(in)sicurezza ontologicaturca, nel lungo periodo indipendente dalle contingenze belliche. In secondo luogo, riconoscere il fait accompli, ovvero i successi (seppur relativi) di Ankara – dall’Africa all’Asia Centrale– per i quali Erdoğan risulta il «massimo interprete mondiale della politica del rischio incalcolabile». Pertanto, se è vero che le vocazioni imperiali turche e italiche hanno sempre dovuto convivere con il rischio perenne di scontrarsi tra Tripoli, Tirana e Mogadiscio, i numeri dell’odierna partnership italo-turca – 20 miliardi di dollari di interscambio, condivisione di progetti strategico-militari e legami tra società civili – sono tanto importanti da rendere del tutto preferibile l’instaurazione di una collaborazione incardinata sul mutuo rispetto, sul raggiungimento di obiettivi concordati e sul delineamento di linee rosse da non superare. È quindi in questo senso che i nove punti degli accordi firmati nel vertice del 5 luglio può significare una scelta coraggiosa di Italia e Turchia per la costituzione di quello che l’ex Ambasciatore Marsili ha definito «opportunità per un nuovo e più equo ordine mediterraneo». Non certamente in ottica ostile ai partner euroatlantici, quanto piuttosto per condividere uno spazio vitale e opportunistico con Ankara, oltre che per richiamare le loro radici storico-culturali con pochi eguali.
In ultima istanza, una stabilità sul fronte turco è fondamentale per Roma al fine tutelarsi in quei frangenti in cui i propri interessi militari, energetici e commerciali rischiano invece di sopperire alle divergenze con Parigi, Mosca, Berlino e scomparire nello scontro Washington-Pechino. Al contrario, da attore regionale rilevante quale dovrebbe e potrebbe essere l’Italia, non giocare a proprio vantaggio l’odierno riassetto multipolare significherebbe rinunciare a ogni minima possibilità di avanzare pretese geopolitiche.
Di fronte a scenari sempre più complessi, la Turchia rappresenta attualmente per l’Italia quell’”amico” che obbliga a fare scelte coraggiose per troppo tempo rimandate. Obbliga a fare i conti tanto con la storia quanto con l’elaborazione (mancata) di un interesse nazionale da meglio precisare. Pur tra numerose dispute, segnalare ad alleati – e non – l’esistenza di un fronte Sud/Mediterraneo può costituire una leva importante presso futuri tavoli decisionali in seno europeo ed euroatlantico. Per Draghi e per tutti una lezione: per compiere un balzo in avanti, una “sciacquatura realista” conviene più delle facili etichettature.
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