L’evoluzione del lavoro femminile nella storia della Repubblica italiana

Le donne hanno rappresentato, nella storia della Repubblica italiana, un punto cardine per la nascita e la costruzione della Repubblica.  Dalla battaglia di liberazione contro il fascismo e il nazismo, alla lotta per la libertà e la democrazia, fino ad arrivare alla conquista del diritto al voto: le donne hanno contribuito al cambiamento della società civile del Paese, dello status sociale, delle condizioni di vita e delle leggi scrivendo pagine e pagine della storia italiana.


Un punto ancora dolente riguarda l’occupazione e la tutela della donna nel mondo del lavoro. Difatti, sebbene siano state conquistate nel corso del tempo una serie di garanzie, che hanno favorito l’integrazione della donna nel mondo del lavoro, l’Italia è ancora molto lontana dal raggiungimento dello standard europeo.

Secondo l’Istat il tasso di occupazione delle donne a giugno 2017 ha raggiunto il 48,8% (a livello nazionale è il valore più alto registrato dal 1977). Tuttavia, se andiamo ad analizzare l’ultimo dato Eurostat, riferito al primo trimestre 2017, sul fronte dell’occupazione femminile, l’Italia resta agli ultimi posti: il suo 48,8% è più alto solo rispetto al 43,3% della Grecia. Ben lontano dal 61,6% della media dei 28 paesi europei. E ancor di più dai record di Svezia (74,6%), Norvegia (71,9%) e Germania (71,0%).

A pesare sul dato dell’occupazione femminile italiana c’è soprattutto la difficoltà nel conciliare il lavoro con la famiglia: nel 2016 si stima che oltre 30mila donne hanno dato le dimissioni dal posto di lavoro in occasione della maternità.

Il concetto di famiglia. Proprio il concetto di famiglia ha costituito, nella storia della Repubblica e nell’affermazione della posizione giuridica e lavorativa delle donna, un punto focale. Per poter meglio comprendere l’iter legislativo sulla evoluzione del lavoro femminile occorre, quindi, partire proprio dal concetto di famiglia.

Come era concepita la famiglia nella nuova era della Repubblica? Era sicuramente un modello di famiglia patriarcale basata sul matrimonio. La famiglia italiana, che doveva essere vantata nel testo della Costituzione repubblicana, doveva essere una, integra e indissolubile. Il capo famiglia, il pater familias, nella concezione cattolica democristiana, era uno e naturalmente coincideva con l’uomo.

In quegli stessi anni però, comincia a farsi strada anche un nuovo concetto di famiglia totalmente opposto a quello scritto sulla Costituzione. Una giovanissima donna, Nilde Iotti, sicura e ferma nelle sue idee, afferma un concetto di famiglia secondo cui “tutti i membri della famiglia hanno eguali diritti”.

Parità ed uguaglianza sono i due termini che vengono esplicitati per la prima volta in modo così netto e costituiranno poi i punti di riferimento anche nel testo della riforma sul diritto di famiglia.

Fonti normative che regolano il rapporto tra donne e lavoro. Analizzando più nello specifico le fonti normative, sicuramente la prima fonte da prendere in considerazione è la Costituzione, la quale afferma solennemente alcuni principi fondamentali in tema di parità di diritti tra uomo e donna:

  1. Il principio generale di eguaglianza davanti alla legge (art. 3 comma 1)

“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni politiche, di condizioni personali e sociali”;

  1. L’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi (art. 29)

“La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare”.

  1. La protezione della maternità (art. 31)

“La Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose. Protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù favorendo gli istituti necessari a tale scopo”.

  1. La parità nel lavoro (art. 37)

“La Repubblica riconosce alla donna il diritto a svolgere un’attività lavorativa in condizione di parità con l’uomo e di adempiere la propria funzione materna che deve essere oggetto di una specifica protezione, con la garanzia per la lavoratrice di essere madre senza che la maternità debba o possa pregiudicare la sua posizione lavorativa e la parità di trattamento”.

La difficile convivenza tra la tutela della maternità e la tutela della parità. Dunque, sostanzialmente la Costituzione, per quel che riguarda il rapporto tra donne e lavoro, pone due linee: una è la tutela della maternità e l’altra è la parità.

Nell’attuazione delle norme costituzionali, dai primi anni 50 fino agli anni 60, queste due linee si sono in qualche modo divaricate: nel 1950 veniva emanata la legge n. 860 sulla tutela fisica ed economica delle lavoratrici madri. Tale legge aveva introdotto il divieto di licenziamento della donna dall’inizio della gestazione fino al compimento del primo anno di età del bambino; il divieto di adibire le donne incinte al trasporto e al sollevamento di pesi ed altri lavori pericolosi, faticosi o insalubri; il divieto di adibire al lavoro le donne nei tre mesi precedenti il parto e nelle otto settimane successive, salvo possibili estensioni.

Di fatto, però se da un lato si tutelavano le lavoratrici madri, dall’altro non si prevedevano misure sufficienti di parità, facilitando in questo modo l’estromissione delle donne dal mercato del lavoro. Assumere una donna comportava assumere oneri più rilevanti. Non c’erano adeguate misure di sostegno al diritto di accesso al mercato del lavoro. Le donne erano utili al sistema produttivo ma nello stesso tempo erano un anello debole: difatti venivano mobilitate, storicamente, solo nei casi di emergenza o di bisogno come nel caso delle guerra, mentre nei casi di esubero dei lavoratori, erano le prime ad essere licenziate.

Durante gli anni 60 le forze politiche e le associazioni per l’emancipazione femminile chiedono nuove leggi di tutela per le lavoratrici.  Nel 1963 vengono approvate 3 leggi importanti a favore delle donne:

  1. la legge n. 7 del 1963 vieta il licenziamento delle donne che contraggono matrimonio abolendo le cosiddette “clausole di nubilato” ovvero qualsiasi genere di licenziamento delle lavoratrici in conseguenza del matrimonio, molto frequenti nei contratti di lavoro prima dell’approvazione della legge n. 7.
  2. la legge n. 66 del 1963 che afferma il diritto delle donne ad accedere a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la Magistratura. Fino ad allora le donne erano state considerate inaffidabili e volubili nel giudizio.
  3. la legge n. 389 del 1963 sulla pensione sociale alle casalinghe che abbiano versato dei contributi volontari.

Solo negli anni 70 la legislazione ordinaria attua normativamente il principio della parità fra uomo e donna e istituisce i primi organismi finalizzati a perseguire l’uguaglianza di trattamento e di opportunità. Comincia pian piano a ricostituirsi quell’unità di principi (tutela della maternità e tutela della parità) sanciti dall’art. 37 della Costituzione.

Gli anni 70, quindi, vedono importanti riforme che danno attuazione ai principi fissati dalla Costituzione. In questo periodo vengono approvate:

  1. la Legge 300/70 (Statuto dei lavoratori) che vieta negli articoli 15 e 16 ogni atto o patto discriminatorio, individuale o collettivo;
  2. la Legge 1204/71, di riforma della legge sulla lavoratrice madre prima richiamata, che assicura un’efficace protezione fisica alle gestanti e contiene previsioni per la salvaguardia del posto di lavoro;
  3. la Legge 151/75, di riforma del diritto di famiglia, che stabilisce la parità dei coniugi e sostituisce la “patria potestà” con la “potestà parentale”;

Decisiva per le pari opportunità, però, è la Legge 903/77 attraverso la quale si sancisce il divieto di discriminazione nell’accesso al lavoro, nella formazione professionale, nelle retribuzioni e nell’attribuzione delle qualifiche e delle carriere professionali, precludendo altresì qualsiasi tipo di disparità basato sullo stato matrimoniale, di famiglia, di gravidanza.

Con la legge 903/77 si è cercato, dunque, di creare i presupposti per una maggiore autonomia della donna sul piano personale, professionale ed economico.

Dott.ssa Noemi Pasquarelli

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