La scorsa settimana è stata caratterizzata da un aumento della tensione politica e militare tra gli Stati Uniti e la Corea del Nord. I primi, dopo aver lanciato 59 missili Tomahawk contro la base siriana Shayrat, da cui presumibilmente sarebbero partite le eventuali bombe chimiche che hanno causato la morte di una decina di persone, hanno inviato una serie di portaerei per la penisola coreana, come contenimento verso la seconda (Corea del Nord), che, a sua volta, si è detta pronta a rispondere proporzionalmente a qualsiasi tipo di attacco lanciato dagli Stati Uniti e dai suoi alleati sud-coreani e giapponesi.
L’improvviso cambiamento nell’approccio alla politica estera dell’Amministrazione Trump, soprattutto se visto alla luce degli attentati contro la Siria e l’Afghanistan, ha sorpreso non solo i suoi elettori, ma anche i principali leader populisti europei, come, per esempio, Marine Le Pen, poiché ciò andrebbe in direzione opposta a quella che il candidato Trump avrebbe detto durante la sua campagna elettorale, vale a dire, un candidato che sosteneva un’agenda rivolta più verso l’interno con lo slogan “America First”, e meno verso l’esterno, dal momento che per lui gli Stati Uniti avrebbero dovuto risolvere i propri problemi, e non quelli internazionali.
Tuttavia, questo cambiamento avviene in un momento particolarmente preoccupante per il presidente Trump, perché da un lato, le costanti critiche sia delle correnti democratiche e repubblicane sia della società civile di matrice liberale, cominciavano ad essere insopportabili per lo stesso Presidente e per la sua amministrazione, a seguito delle quali Michael Flynn è stato rimosso dalla carica di consigliere per la sicurezza alla Casa Bianca. Dall’altro lato, la mancanza di supporto nel Congresso per l’annullamento dell’Obamacare (che, in quanto legge, per essere abrogata avrebbe bisogno di 60 voti al Senato, contro 52 controllati dai repubblicani); la mancanza non solo del sostegno dalle principali imprese del TIC, ma anche del sostegno sia popolare (i sondaggi prima dell’attacco alla Siria indicavano la popolarità di Trump al 37%) che degli Stati come New York alle misure di restrizione per viaggiare negli Stati Uniti nei confronti dei cittadini provenienti dai 7 paesi a maggioranza musulmana; tutta questa situazione ha provocato una grave mancanza di legittimità e credibilità dell’attuale inquilino della Casa Bianca.
Se visto in quest’ottica, i bombardamenti contro la Siria e l’Afghanistan potrebbero essere il risultato, probabilmente, non di una concreta Dottrina di Difesa e Sicurezza (Dottrina Trump?), ma di una strategia di breve o medio termine volta a contrastare le ragioni dei suoi critici in relazione alla presunta preferenza del presidente Putin dell’allora candidato repubblicano piuttosto che della candidata democratica, cioè, essendo la Russia presente in Siria ed essendo il principale alleato del presidente Assad, il bombardamento rivela chiaramente che il Presidente Trump è di fatto un difensore degli interessi degli Stati Uniti che non teme la presenza russa nella regione.
Tuttavia, se osservato dal punto di vista di una strategia a lungo termine, che implica l’uscita dal potere di Assad (il suo mandato si conclude nel 2021), ed essendo il regime un “protettorato” fondamentalmente russo e iraniano, un secondo bombardamento statunitense contro la Siria non solo sarebbe controproducente, ma potrebbe anche aggravare l’ira sia dei due alleati, sia della comunità internazionale, che tenta a tutti i costi di trovare una soluzione diplomatica al conflitto. In poche parole, l’Amministrazione Trump, ora, in relazione alla Siria, dovrà allinearsi agli sforzi diplomatici in corso ad Astana, o continuare a spendere missili, visto che senza il coinvolgimento della Russia e dell’Iran la soluzione militare non produrrà gli effetti desiderati (per esempio, la base Shayrat è tornata ad essere operativa).
D’altronde, durante il lancio di bombe contro la Siria e l’Afghanistan, Trump sembrava determinato a contenere il regime di Pyongyang, perlomeno a non lanciare il suo sesto test con la bomba nucleare, durante le celebrazioni avvenute lo scorso 15 aprile per i 102 anni di King il-Sung, fondatore dell’attuale dinastia nordcoreana e nonno di King Jong-un.
Per fare pressione sul regime in modo da reggersi secondo le intenzioni di Washington, questo ha dovuto ricorrere a Pechino, che sembra aver fatto il doppio gioco: in primo luogo, ha collaborato con l’Amministrazione Trump, devolvendo ad esempio alla Corea del Nord un carico di carbone destinato alla Cina, e in secondo luogo, al tempo stesso avvertendo gli Stati Uniti del rischio che avrebbero dovuto affrontare per un possibile attacco alla Corea del Nord.
Nonostante le costanti minacce di contenimento, il fatto è che Pyongyang ha condotto una parata militare il 15 aprile, in cui ha mostrato un nuovo arsenale di missili intercontinentali in grado di raggiungere, eventualmente, il territorio americano.
Tutto indica che la tensione, creata durante il Giorno Del Sole in Corea del Nord, tende a diminuire, ma le parti non hanno firmato alcun trattato di pace mentre i portaerei ed altre risorse militari statunitensi non sono ancora rientrati, il che può far prevedere che potremmo assistere di nuovo allo stesso out out della settimana scorsa in un prossimo futuro, condizionato sia dalla politica interna negli Stati Uniti, sia dalla situazione internazionale, in particolare nel Pacifico, che è diventato l’oceano del XXI secolo.
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