In che mondo ci troveremo appena l’emergenza sanitaria globale sarà rientrata? Torneremo alla nostra vita di sempre tranquillamente ricordando questi giorni semplicemente come una parentesi difficile? O sarà impossibile tornare a quella routine fatta di certezze e convinzioni impietosamente spazzate via dalla pandemia? Il futuro spesso si costruisce a partire dalla narrazione del passato, certe volte in caso di eventi particolarmente significativi anche del presente.
Non esistono epoche, non esistono periodi, non esistono tempi storici. Esiste un solo tempo che scorre con fluidità in un unico movimento, connettendo indissolubilmente gli eventi e gli esseri viventi.
Trattare dunque gli eventi passati comporta sempre una certa difficoltà a delimitare esattamente lo spazio temporale in cui circoscrivere il campo di ricerca, tuttavia questa operazione risulta necessaria al fine di non perdersi negli infiniti viali percorribili della storia.
Ciò che è possibile considerare storia inoltre è usualmente collocato per lo meno ad una distanza temporale di due decenni dal presente anche se non tutta la dottrina concorda con questa impostazione.
Per alcuni la storia si scrive nella contemporaneità, dunque anche un evento molto poco distante nel tempo può essere trattato come un evento storico e studiato con criteri storici.
Personalmente mi considero più affine al primo paradigma, ossia che deve passare del tempo prima di poter studiare degli eventi come “storia”, inoltre in un certo senso ritengo l’orizzonte temporale dei due decenni fin troppo breve considerato l’attuale dibattito storico-politico, imbevuto di revisionismo, che spinge parallelamente il confronto politico e il confronto storico a reinterpretare eventi passati anche a più di mezzo secolo di distanza. In entrambi i casi, la costruzione di una narrativa del passato (recente o remoto) comporta una serie di conseguenze che incidono sul presente e sul futuro.
Attraverso la costruzione della memoria, valutazioni e giudizi sui fatti passati vengono cristallizzati nella coscienza collettiva o almeno nella parte maggioritaria di essa. In genere nel trattare il presente i mezzi d’informazione, TV, giornali, radio e i soggetti deputati alla formazione dell’opinione pubblica non attivano meccanismi sociali e intellettuali così potenti da generare conflitti eccessivi nel dibattito politico e nella società tali da dover ricorrere ad una narrativa speciale. In casi di eventi di portata straordinaria invece la forza intrinseca dell’evento rende il presente immediatamente “storico”, cioè nell’analisi del presente si ha la sensazione di andare oltre la semplice cronaca e di essere piuttosto nel campo della “scrittura della storia”. La crisi sanitaria globale di questo 2020 si inserisce a pieno titolo in tale tipologia di eventi.
Sembra certo che in futuro i libri di storia riserveranno al Coronavirus delle pagine che andranno ad aggiungersi alle altre pagine già scritte sulle epidemie che hanno colpito il mondo, come le ripetitive pesti del mondo antico e medievale, o l’influenza spagnola del primo dopoguerra.
Ma chi scrive la storia? La risposta più comune è: “i vincitori”. Questa risposta è sicuramente valida in molteplici occasioni, specialmente nei casi in cui si possono individuare chiaramente vincitori e vinti, come guerre e competizione economica, ma in casi in cui questa caratterizzazione non è possibile la relazione si ribalta completamente ed invece di essere il vincitore a scrivere la storia sarà la storia a “scrivere” il vincitore, o detto in altri termini sarà chi riuscirà a far passare la propria narrativa come storia a risultare vincitore. A questo punto è doveroso cercare di capire chi o cosa partecipa alla contesa della narrativa.
Lo sfondo in cui si inserisce questa battaglia è lo scontro politico ideologico i cui contendenti sono gli esseri umani (animali politici secondo una delle più famose affermazioni aristoteliche) e le ideologie da essi condivise e sostenute.
La narrativa viene costruita interpretando gli eventi attraverso il filtro ideologico applicato in contemporanea con lo svolgersi dell’azione, e successivamente rimodulato e perfezionato sempre in funzione dell’obiettivo politico e/o ideologico prefissato.
Un esempio concreto di lotta per la narrativa: le mobilitazioni popolari in Brasile del 2013 e l’inchiesta Lava Jato.
Per spiegare meglio i concetti teorici è sempre utile fare degli esempi pratici e il caso delle manifestazioni popolari che più o meno spontaneamente si susseguirono in Brasile tra Maggio e Giugno del 2013 si presta perfettamente allo scopo, inoltre l’essere stato testimone oculare di alcune di queste manifestazioni fa sì che ad aiutare la mia esposizione non siano soltanto le mie conoscenze teoriche ma anche i ricordi sensoriali ed emotivi di quei giorni. Ma procediamo con ordine.
Nel primo semestre del 2013 ero un giovane studente italiano che come studente “free mover” frequentava alcuni corsi di storia e di sociologia all’Università di San Paolo. A fine Aprile l’annuncio di un aumento del prezzo del trasporto pubblico da R$ 3.00 a R$ 3.20 causò una serie di piccole manifestazioni in tutto il Brasile, perlopiù organizzate da movimenti e associazioni progressiste che contestavano le politiche neoliberali. In una di queste mobilitazioni, a San Paolo, alcuni manifestanti (incappucciati e attrezzati di spranghe) arrecarono dei danni alle vetrine e ai bancomat degli istituti di credito dell’Avenida Paulista, il luogo simbolo del business brasiliano. La risposta del governatore dello stato come spesso avviene in questi casi fu una risposta poliziesca e militarista. Nelle settimane successive tuttavia sempre più gente si riversò nelle strade per chiedere il blocco dell’aumento. Le manifestazioni furono estremamente partecipate e personalmente ricordo la mobilitazione degli studenti e dei collettivi universitari della facoltà di storia conferendo alle manifestazioni un preciso taglio ideologico antiliberista.
La mobilitazione almeno inizialmente ebbe un grande successo. A Brasilia i manifestanti in maniera del tutto pacifica arrivarono fino alla sede della Camera e del Senato prendendone possesso per una sera.
Alla fine, anche attraverso una presa di posizione in diretta televisiva dell’allora presidentessa Dilma Roussef l’aumento del prezzo del biglietto venne bloccato, sancendo almeno per il momento la vittoria dei manifestanti.
Le cose però sono sempre più complicate di quanto sembrino, dunque l’iniziale entusiasmo per il ritrovato spirito politico del popolo brasiliano si trasformò abbastanza rapidamente in una lotta per la narrativa. Il primo segnale dell’inizio di questa lotta lo notai grazie ad un post sui social di un mio amico giornalista che commentando la copertina della rivista Veja si chiedeva chi si sarebbe appropriato della narrativa di quegli eventi.
Per chi non conosce il panorama editoriale brasiliano Veja è probabilmente la rivista più conservatrice del paese che con assoluta non curanza dell’imparzialità è un baluardo del contrasto al socialismo in Brasile e in America Latina. Tra le più significative uscite infelici della rivista nel suo “maccartismo verdeoro” si annoverano articoli in cui si definisce lo storico britannico Eric Hobsbawn un “idiota morale” per il suo schieramento politico o copertine in cui si rappresenta una donna personificazione della giustizia inchiodata ad una stella rossa (simbolo del Partido dos Trabalhadores, il partito più grosso della sinistra brasiliana di cui fanno parte l’ex presidente Lula e l’ex presidentessa Dilma). Tornando alla copertina del numero il cui tema erano le manifestazioni titolo e sottotitolo erano “La rivolta dei giovani. Dopo il prezzo del biglietto e la volta della corruzione e della criminalità?” su una foto di sfondo che mostra una vetrina graffitata e il marciapiede in fiamme.
Una copertina come questa che almeno in parte si schiera a favore dei manifestanti (il termine usato è “giovani”) realizzata da una rivista che solitamente avrebbe tacciato i manifestanti di teppisti comunisti o vandali anarchici non poteva che generare sospetto in chi conosce minimamente lo spettro politico brasiliano. L’altra parola importante di questo titolo è “corruzione”.
Di fatto passato il momento di contestazione contro l’aumento del prezzo del biglietto sui mass media, tra cui la Rede Globo, la TV più grande dell’America Latina, e giornali non apertamente schierati come Veja ma senz’altro di orientamento conservatore come Folha o Estadão iniziarono a dedicare fiumi di inchiostro sul problema corruzione. Corruzione che era indicata come elemento fondante del governo federale che dal 2002, anno della prima elezione di Lula, era guidato dal PT.
Da lì in avanti un sistema combinato di media conservatori e partiti di opposizione (di cui almeno in quel momento l’ala più forte era rappresentato dal PSDB e dal suo futuro candidato alla presidenza Aécio Neves) iniziarono a convocare manifestazioni contro la corruzione del governo guidato dal PT.
Nonostante questi sforzi dell’opposizione le elezioni del 2014 riconfermarono Dilma Roussef alla guida del paese per il suo secondo mandato. Un secondo mandato che si sarebbe presto rivelato un totale disastro. Un’inchiesta giudiziaria chiamata “Lava Jato” cui uno dei protagonisti è l’attuale Ministro della Giustizia brasiliano Sergio Moro, ex giudice federale del Tribunale di Curitiba, fu avviata per indagare sulla gestione di una delle più grosse aziende pubbliche brasiliane, la Petrobras. L’indagine si ampliò notevolmente e alla fine arrivò a coinvolgere sia la presidentessa Dilma sia l’ex presidente Lula.
Anche in questo caso i media conservatori giocarono un ruolo fondamentale nell’esaltare la figura di Moro come un “eroe” che si batteva contro la corruzione endemica del paese. Il risultato finale di tutto questo è stata la deposizione della presidentessa eletta tramite un impeachment e la carcerazione dell’ex presidente Lula, che il PT aveva indicato come futuro candidato alla presidenza. Secondo il PT l’inchiesta Lava Jato, che molti anche nella stampa internazionale hanno paragonato all’inchiesta “Mani pulite”, è stata una macchinazione giuridico-mediatica per estromettere Lula dalla competizione elettorale per la presidenza che si sarebbe tenuta nel 2018.
Le elezioni del 2018, celebrate dopo due anni di presidenza di Michel Temer, che era vicepresidente e per questo subentrato carica dopo l’impeachment contro Dilma, segnarono il trionfo dell’attuale presidente Jair Bolsonaro, ex militare nostalgico della dittatura, che ha sconfitto il candidato del PT Ferndando Haddad, ex sindaco di San Paolo. Uno dei primi atti di Bolsonaro fu quello di chiamare Sergio Moro come Ministro della Giustizia, causando la reazione dei militanti e dei quadri del PT che leggevano in questo gesto la prova che l’inchiesta era stata messa in piedi per eliminare il PT e Lula dal governo.
Anche questi eventi per la giovane democrazia brasiliana rappresentano degli eventi che “scrivono la storia”, quindi anche su questi eventi è tuttora in corso una lotta per la narrativa.
La lotta per la narrativa della pandemia da Covid-19
Tornando al presente e alla pandemia in corso è estremamente probabile che una lotta per la narrativa si aprirà (se non si è già aperta) una volta che l’emergenza sarà rientrata. In che modo questa lotta verrà condotta?
La risposta a questa domanda può facilmente dedursi immaginando di riportare l’esempio precedente su scala globale. Uno dei metodi di lotta sarà la corsa all’appropriazione dei canali informativi e alla veicolazione del proprio punto di vista. I giornali, le televisioni, i siti Internet, le radio dipendendo dal proprietario e dalla sua visione politico-ideologica inizieranno a filtrare le notizie, le statistiche e i dati che sicuramente si raccoglieranno abbondantemente sulla pandemia, per poi proporle al proprio pubblico attraverso l’interpretazione che più si addice al proprio obiettivo ideologico.
In pratica anche la pandemia di Covid-19 sarà usata come uno strumento politico, cosa che in realtà sembra essere già iniziata ancora prima della fine dell’emergenza. Politici di vario colore colgono la palla al balzo cavalcando le paure della società e approfittano del momento delicato per esaltare il proprio ego, ergendosi a difensori della salute pubblica (o anche in senso opposto della difesa della normalità e soprattutto delle esigenze produttive e finanziarie), scivolando in atteggiamenti che poco hanno a che vedere con l’assennatezza che dovrebbe contraddistinguere chi rappresenta le istituzioni. Ma d’altronde lo storico francese Renè Albrecht-Carrié aveva già intuito in un suo famoso libro la “proletarizzazione” della società e della politica, cioè l’uso di modi, espressioni e atteggiamenti sempre più “rozzi”, appellativi e direttamente rivolti alle emozioni del pubblico. Slogan ad effetto, poche argomentazioni e un costante richiamo a situazioni conflittuali verso nemici veri o presunti. Sembra di rivivere qualcosa già visto nel corso del XX secolo tuttavia in un mondo completamente trasformato dalla tecnologia.
Di fatto sono convinto che ogni fazione politica nell’immenso e frastagliato panorama politico internazionale cercherà qualcuno o qualcosa a cui dare la colpa, e non è nemmeno difficile provare a fare delle previsioni su chi e cosa verrà usato come capro espiatorio.
Un fronte ideologico abbastanza potente in vari paesi è il cosiddetto “sovranismo” che raccoglie sotto la sua ala in genere partiti di destra che in seguito alla crisi economica del 2008 (dopo aver per lungo tempo sposato la causa neoliberale) hanno riportato al centro della propria agenda propagandistica il sentimento nazionale. Dal “Make America Great Again” di Donald Trump, al “prima gli italiani” di Matteo Salvini, passando per il “Brasil acima de tudo” di Jair Bolsonaro e l’autoritarismo ungherese di Viktor Orban, i sovranisti attuando politiche sempre più intente al protezionismo e a frenare il liberismo addosseranno le colpe (della diffusione del virus, della crisi economica o della mancata prevenzione) agli organismi internazionali come la UE (il governo di Washington ad esempio ha già accusato l’Organizzazione Mondiale della Sanità di non avere saputo gestire la crisi) e/o indicheranno un qualche nemico esterno (non mi stupirei se questo nemico fosse individuato nella Repubblica Popolare Cinese).
Un altro fronte ideologico-politico è rappresentato dal “liberismo”, in genere formato da partiti di destra liberale, ma anche di centrosinistra, sostenitori del liberoscambismo e dell’efficienza del libero mercato. In tale gruppo si inseriscono in genere anche i grandi gruppi industriali e imprenditoriali.
I liberisti sono in genere più preoccupati per la crescita del Prodotto Interno Lordo piuttosto che per la salute pubblica e per quanto riguarda la crisi causata dal Coronavirus almeno inizialmente hanno provato a minimizzare la cosa. Probabilmente ci ricorderemo delle dichiarazioni del Primo Ministro britannico Boris Johnson (esempio più o meno calzante di politico liberista) che aveva affermato di non poter e di non voler fermare il sistema produttivo del paese e che i cittadini britannici avrebbero dovuto abituarsi all’idea di perdere qualche caro. Dichiarazioni che successivamente ha modificato adeguandosi alle raccomandazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e procedendo all’applicazione della quarantena anche nel Regno Unito. Con una certa ironia della sorte (si sa il Fato è beffardo) Boris Johnson è stato ricoverato in terapia intensiva a causa del Covid-19 senza drammatiche conseguenze fortunatamente.
Il fronte liberista forse avrà meno opportunità di creare una propria narrativa degli eventi perché chi sostiene la libera circolazione di beni e servizi sempre alla ricerca di maggiori profitti non pare avere capri espiatori in situazioni come queste, tuttavia è probabile che qualcosa inventeranno. Probabilmente addosseranno le colpe alla mancanza di coordinazione tra i paesi, ad un nemico esterno (che potrebbe essere sempre la Cina) o addirittura a fantasiose interpretazioni mediche come quella del Presidente di Confindustria Lombardia che sostenitore della non chiusura delle attività produttive ha addossato la responsabilità per il grande numero di contagi registrati nella sua regione agli allevamenti di animali.
Gli allevamenti intensivi di animali vengono additati come una delle possibili cause della diffusione del virus da parte dei movimenti ecologisti che tuttavia a differenza dei liberisti in genere sono ideologicamente anticapitalisti o quantomeno per un capitalismo etico.
Il fronte anticapitalista avrà anche il suo bel da fare per individuare e addossare le responsabilità della pandemia. Principale imputato è lo smantellamento della sanità pubblica attuato nei paesi europei (in alcuni paesi l’accusa sarà la mancanza di un valido sistema di salute pubblica) negli ultimi trent’anni, che di fatto ha ridotto enormemente le possibilità di risposta degli stati ad emergenze straordinarie. Abbastanza a sorpresa anche il presidente francese Emmanuel Macròn ha rivalorizzato la spesa pubblica in favore della sanità, ritenendola una componente necessaria per la stabilità politica ed economica. Di fatto se i sistemi sanitari anziché indeboliti negli ultimi trent’anni fossero stati potenziati probabilmente il numero maggiore di posti letto in ospedale, di macchinari per le terapie intensive, di medici e personale sanitario avrebbe forse consentito di mantenere alcuni settori produttivi aperti o comunque di limitare la letalità del virus data la capacità del sistema di reggere eventuali picchi di contagio.
Purtroppo, con i se non si fa storia dunque ciò che è stato è stato e non si può cambiare. Tuttavia, onde evitare di ripetere gli errori del passato e confermare la massima gramsciana che la storia insegna ma non ha scolari dovremo impegnarci tutti nel capire il presente, fatto di commercio e tecnologia, di elevata mobilità e interconnessione che forse per la prima volta nella storia sta chiaramente mostrando che il mondo è uno solo, ed ogni paese è indissolubilmente legato agli altri. In pratica i problemi nazionali stanno pian piano esaurendosi lasciando spazio a problemi che coinvolgono tutti. Il riscaldamento globale, l’inquinamento atmosferico e l’innalzamento del livello del mare erano già un esempio di quanto tutti i popoli del mondo avessero sfide comuni da affrontare, adesso il Coronavirus ha definitivamente confermato la cosa.
Concludendo vorrei fare una riflessione invece sull’atteggiamento che noi singoli possiamo adottare.
La pandemia ha generato comportamenti irrazionali e competitivi come la corsa ai supermercati o l’acquisto esagerato di mascherine e prodotti disinfettanti. Una competizione egoistica che in situazioni come questa è quanto di più sbagliato possa essere messo in atto. La mia speranza è che passata la crisi possiamo finalmente riscoprire i valori dell’empatia e del rispetto verso l’altro, indipendentemente dalla sua razza, il colore della sua pelle, il suo orientamento religioso o sessuale, e affrontare il secolo che abbiamo ancora di fronte come quello che in fondo siamo: un’unica razza, quella umana.
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