Le leggi contro la blasfemia hanno sempre fatto parte della storia dell’ordinamento italiano e, contrariamente ad altri paesi, la bestemmia è tuttora oggetto di forme repressive a tutela del buon costume e del sentimento religioso.
Pare opportuno, per tale motivo, inquadrare la problematica nella cornice normativa di cui all’art. 724 c.p[1]. Sin dalla sua originaria formulazione, l’art. 724 c.p. puniva, come viene ribadito dalla Cassazione,[2] a titolo di bestemmia e manifestazioni oltraggiose verso i defunti, chiunque pubblicamente bestemmiasse con invettive o parole oltraggiose contro la Divinità o i Simboli venerati dalla religione dello Stato.[3] Affinché si potesse parlare di reato, oltre all’invettiva contro la Divinità, era necessario che l’ingiuria soddisfacesse anche il criterio della pubblicità. Con questo si intendeva la necessità che l’evento avvenisse in un luogo pubblico e al cospetto di un uditorio non inferiore a due persone.
La Corte Costituzione si è espressa ripetutamente sulla materia in oggetto in seguito alle numerose questioni di legittimità costituzionale sollevate, tutte vertenti sul carattere discriminatorio della norma indicata la quale lasciava privi di tutela le invettive rivolte nei confronti delle confessioni diverse dalla cattolica. In uno dei suoi primi interventi,[4] il giudice supremo si espresse affermando che il reato di bestemmia trovava fondamento nelle norme costituzionali in materia di tutela del sentimento religioso. Inoltre, in quest’occasione, aggiunse che la tutela penale del sentimento religioso si giustificava non tanto in quanto religione di Stato, ma in quanto religione professata dalla quasi totalità dei cittadini. Optando, in questo modo, per il criterio sociologico-numerico, il giudice supremo riconosceva le forti implicazioni, a livello soprattutto sociale, della blasfemia e la necessità di un’incriminazione a livello penale di questa. La visione della Corte Costituzionale rispetto alla tutela penale del sentimento religioso e, nello specifico, rispetto all’applicazione dell’art 724 cp, subì una mutazione definitiva in occasione della sentenza n. 440/1995 con la quale il giudice supremo dichiarò la parziale illegittimità dell’articolo su citato. Quest’ultimo, infatti, venne considerato come illegittimo limitatamente alle parole “o i simboli o le parole venerati nella religione dello Stato.” La conclusione a cui il giudice supremo arriva con questa sentenza rileva che la Corte Costituzionale propende per una partecipazione attiva della Repubblica nella difesa di una religiosità universale la quale intende svincolarsi, così come più volte ribadito nella pronuncia, dal criterio di maggioranza numerica. Una propensione che l’avrebbe non soltanto distinta dalle altre Corti Costituzionali europee, ma anche dall’approccio condiviso dai giudici comuni.
Sembra interessante, infatti, porre l’accento sulla differenza in merito alle materie su indicate riscontrabile tra il sistema italiano e quello francese. Quest’ultimo ha abolito, in una prima fase risalente al 1881, definitivamente il reato di blasfemia anche nella sua forma secolarizzata di “atteinte à la morale religieuse”.[5] A questo regime di libertà quasi assoluta sarebbe poi seguito, con la famosa “loi Pleven” del 1972, un sistema più restrittivo attraverso il quale il reato di blasfemia fu sostituito da quello di ingiuria, di diffamazione e di provocazione all’odio e alla violenza. Inoltre, secondo la giurisprudenza successiva agli eventi del 2007 contro Charlie Helbo, la prassi francese ha previsto che si potesse insultare una religione, le sue figure e i suoi simboli senza che questo comportasse un illecito e che, al contrario, fossero interdette le sole ingiurie rivolte agli adepti di una specifica religione. Eliminando il termine “blasphème” e sostituendolo con l’espressione “ingiuria nei confronti dei gruppi religiosi”, l’ordinamento francese ha mantenuto la natura penale del reato di bestemmia a differenza di quello italiano che, invece, lo ha depenalizzato conferendogli una natura amministrativa che prevede una pena pecuniaria. Notiamo, perciò, che, nonostante ci sia una differenza a livello terminologico tra i due ordinamenti[6] rispetto al modo in cui questi concepiscono il reato di blasfemia, nella sostanza entrambi proteggono, seppur in modo differente, questo reato.
[1]C. Merluzzi, “La punibilità della bestemmia e delle altre offese al culto”, in rivista Giurisprudenza Penale.
[2]Cass. pen. VI, 3.5.1979 – 7.12.1979, n. 10537.
[3]Idem, pag 3.
[4]Corte Cost., 30.12.1958, n. 79, RIDPP 59, 173.
[5] Intervista consultabile sulla rivista telematica dell’Institut Montaigne di Anastasia Colosimo, professoressa di teologia politica a Sciences Po. Tra i suoi testi, da citare il saggio ” Les bûchers de la liberté,”Paris, Stock, 2016.
[6] Nel mese di gennaio 2020 un nuovo caso ha riacceso il dibattito sul blasphème in Francia. Si tratta dell’ Affaire Mila, una studentessa che ha proferito, su piattaforme on-line, insulti nei confronti della religione islamica e di tutte le religioni. La studentessa non è stata condannata perché gli insulti sono stati rivolti alla religione in generale e non ai gruppi religiosi, situazione che, invece, avrebbe costituito reato.
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