Africa Australe: alternanza di leadership politica o maturità democratica

Tre paesi membri della regione dell’Africa Australe, vale a dire, Angola, Zimbabwe e Sudafrica, hanno avuto, negli ultimi 90 giorni, alternanze nella loro leadership a livello statale. Date le circostanze, solo l’Angola lo ha fatto tramite elezioni. Tali alternanze sono di grande importanza se consideriamo che due capi di Stato, sostituiti in Angola e Zimbabwe, erano al potere da almeno trenta anni. Siamo di fronte ad un segno di maturità democratica o ad una mera tattica politica per la sopravvivenza di movimenti storici al potere sin dall’indipendenza in questi paesi?


   La regione dell’Africa Australe può essere considerata, oggi, una delle più pacifiche tra le cinque che compongono il continente africano, grazie alla fine dei sanguinosi conflitti armati dei principali paesi che la compongono, con particolare attenzione al Mozambico (con gli accordi di pace firmati nel 1992), il Sudafrica (con la fine dell’Apartheid e l’ascesa al potere della maggioranza nera nel 1994) e l’Angola ( con il memorandum della pace di Luena del 2004). Un’eccezione è rappresentata dalla Repubblica Democratica del Congo, che registra ancora alti livelli di conflitto, come quello che ha prodotto più di 32 mila rifugiati, in fuga dalla violenza dal Kasai (RDC), prontamente accolti nei campi di Kakanda e Mussungue, a Lunda Nord (Angola).

   La fine del conflitto armato ha coinciso con l’inizio di un processo, seppur timido, di alternanza della leadership politica all’interno dei movimenti al potere, che si è verificato nel 2005 in Mozambico, tra l’ex presidente Joaquim Chissano e il suo successore, Armando Guebuza e, tra quest’ultimo ed il suo successore, Filipe Nyusi, nel 2015; o ancora in Sud Africa, tra Nelson Mandela e Thabo Mbeki nel 1999. Tali alternanze, come si può immaginare, si sono verificate all’interno di movimenti indipendentisti al potere, con riflessi a livello dello Stato. Cioè, sia in Mozambico che in Sud Africa, i successivi Presidenti della Repubblica erano tutti esponenti di FRELIMO (Chissano, Guebuza e l’attuale Nyusi) e di ANC (Mandela, Mbeki, Motlanthe, Zuma), rispettivamente, per mezzo di elezioni presidenziali dirette, in un caso, e indirette, nell’altro.

   Questo mantenimento delle alternanze in seno ai partiti storici al governo di questi paesi, e con ripercussioni dirette a livello nazionale (mantiene il potere statale), continua ancora e si è verificata di nuovo negli ultimi tre mesi, in Angola, nell’agosto 2017, quando è stato eletto presidente della Repubblica João Lourenço, del partito MPLA, in sostituzione di José Eduardo dos Santos, attuale Presidente di MPLA; in Zimbabwe, con l’insolita estromissione dal potere dello storico Robert Mugabe nel dicembre 2017, che era al potere dal 1980  sostituito da Emmerson Mnangagwa, entrambi di ZANU-PF, e infine in Sud Africa, con le dimissioni di Jacob Zuma sostituito da Ciryl Ramaphosa, entrambi dell’ANC, ora guidato da quest’ultimo.

   Nonostante questi ultimi due casi siano ad interim, in seguito alle dimissioni di Mugabe e Zuma, i cui mandati saranno naturalmente brevi, ovvero fino allo svolgimento delle elezioni presidenziali (in Zimbabwe) e parlamentari (in Sud Africa), la tendenza, che balza subito agli occhi degli osservatori più attenti, è che siamo di fronte ad un’alternanza di leadership politica all’interno degli stessi partiti storici che governano questi paesi (Angola, Mozambico, Sudafrica, Zimbabwe) dalla fine del dominio coloniale.

   Di conseguenza, se l’uscita dal potere di Mugabe rappresenterebbe un ulteriore vantaggio per i partiti di opposizione, in particolare MDC-T, durante le elezioni previste a giugno di quest’anno, la morte di Morgan Tsvangirai, il temibile avversario di Mugabe e Primo Ministro dal 2009 al 2013, del 14 febbraio di quest’anno – curiosamente, lo stesso giorno in cui si è dimesso Zuma – potrebbe essere un fattore di maggiore legittimazione della candidatura e della vittoria di Mnangagwa del ZANU-PF, soprattutto se la nuova leadership di Nelson Chamisa di MDC -T non saprà giocare con il fattore emotivo e di continuità del legato di Tsvangirai. Il MDC-T (Tsvangirai) dovrebbe anche affrontare il problema della lotta interna e cercare di unirsi con la fazione del MDC-N (Ncube), se vuole massimizzare sulla giusta candidatura di Mnangagwa, esponente di ZANU-PF, nonostante una minoranza sosterrebbe la leadership di Grace Mugabe, ex First Lady.

   Per quanto riguarda il Sud Africa, la strategia di ANC sembra risiedere nel miglioramento della performance economica di un paese che è anche membro dei BRICS e del G-20, il cui National Development Plan, approvato nel 2012, sotto la guida di Zuma, potrebbe essere stato messo in ombra dalle ripetute accuse di corruzione e appropriazione indebita di fondi pubblici imputate all’ex presidente. La scelta di Ramaphosa, un uomo d’affari, forse frutto del Black Empowerement Program, potrebbe rinnovare la speranza dell’ANC, grazie al suo know-how economico, e alla sua agenda economica aggressiva e di moralità della società sudafricana, molto noti nel suo discorso sullo Stato della nazione, presentato al Parlamento il 15 febbraio. Ad un anno dalle elezioni nella nazione dell’arcobaleno, se l’agenda di transizione di Ramaphosa avrà successo, il partito AD di Maimane Mmusi (detto Obama sudafricano) o l’EFF del nazionalista Julius Malema, probabilmente, non saranno vincitori, rimanendo l’ANC al potere per altri 5 anni. Se non di più!

   A differenza di paesi come Capo Verde, Ghana e Senegal, dove le alternanze politiche si verificano non solo all’interno dei partiti, ma anche a livello dello Stato, in una successione pacifica tra le varie forze politiche nella conduzione del governo nazionale – un modello perfino per il resto del mondo – i principali paesi dell’Africa Australe, che godono della tranquillità politico-militare e sociale, non hanno avuto ancora un’alternanza politica a livello statale tra le diverse forze politiche, che di per sé, non è preludio di una maturità democratica a livello nazionale, ma di mere alternanze politiche interne con ripercussioni nello Stato, attraverso il potere centrale che loro detengono.

   In altre parole, le alternanze dei leader all’interno dei partiti politici storici al governo non sono sinonimo di maturità democratica se non producono vere alternanze a livello statale tra le diverse forze politiche esistenti, e chissà così si eviterebbero le costanti accuse di frode elettorale. Inoltre, secondo Dahl, citato da Huntington, un “sistema non sarà democratico se le forze di opposizione più grandi continuano a perdere le elezioni, facendo emergere inevitabilmente dubbi sul reale grado di competitività del sistema” (Huntington, La terza Ondata. I Processi di democratizzazione alla fine del XX secolo, 1995).

   Se le alternanze interne dovessero significare una certa maturità democratica, lo saranno solo a livello meramente interno di questi movimenti, ma soprattutto di fronte alla realizzazione di veri congressi elettivi di nuove leadership attraverso la competizione tra candidati diversi, come accade con ANC, e non attraverso voti di acclamazione a candidature unipersonali e ripetute nel tempo, o attraverso dimissioni forzate di vecchi dirigenti. In questo particolare, e curiosamente, il Sudafrica sembra avere una maggiore maturità democratica interna rispetto alle sue controparti in questo spazio geografico.

   Il principale crollo politico di questa regione resta, quindi, quello delle alternanze politiche a livello di Stato, seguendo il modello stabilito in Ghana o Capo Verde, un passo fondamentale verso una solida convivenza sociale, tolleranza politica e consolidamento dello Stato di tipo neoliberale odierno e prosperità del popolo.

Dott. Issau Agostinho

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