Elezioni nella RDC, tra sovranità, democrazia e demagogia

Alla luce della trama creata durante il periodo elettorale nella RDC tra il 2018 e il 2019, è necessario considerare i fatti (immediati e disponibili), solo fatti e nient’altro che fatti, che, a nostro avviso, sono la figura principale assente nella maggior parte delle piazze degli analisti qui e là, privilegiando l’emissione di giudizi di valore in contraddizione con l’equidistanza ermeneutica (ontologica) che dovrebbe governare l’interpretazione ermeneutica (epistemologica) di questi fatti.


   Le elezioni generali (qui il termine generale è all’altezza del suo significato e significante, contrariamente al caso angolano) verificatesi nella RDC lo scorso 30 dicembre, che hanno consacrato il candidato UDPS (Unione per la democrazia e il progresso sociale) Felix Tshisekedi, come il nuovo inquilino du Palais de la Nation, hanno sollevato un interesse generale solo comparato alle elezioni statunitensi, il cui focus di interesse è stato motivato da un po’ di isteria in certi ambienti congolesi, africani e addirittura mondiali. Come è chiaro, il ministro francese delle relazioni estere (per non parlare di altro) ha affermato i risultati elettorali non erano in linea con quello che si aspettavano.

   I dubbi relativi alla verità elettorale erano dovuti ai conti paralleli fatti da oltre 40.000 scrutinatori al servizio della CENCO (Conferenza Episcopale Nazionale del Congo), in base ai quali Martin Fayulu, della coalizione Lamuka, sarebbe stato il vincitore delle elezioni presidenziali con il 61% dei voti, contro il 18% attribuito a Tshisekedi, contraddicendo così i risultati ufficiali provvisori annunciati il 10/01/2019 dalla CENI (Commissione Elettorale Nazionale Indipendente) , che ha rivelato Tshisekedi come vincitore delle presidenziali con il 38,7% dei voti, contro il 34,8% di Fayulu, mentre Emmanuel R. Shadaray, candidato del partito di Kabila (PPRD-Partito Popolare per la Ricostruzione e la Democrazia) avrebbe ottenuto 23.84%.

   La discrepanza dei risultati elettorali presentati dalla CENI (come organismo competente) e dalla CENCO (associazione religiosa) ha portato ad una mediatizzazione planetaria di due fenomeni:

  1. Fayulu come il vincitore delle elezioni presidenziali, che di conseguenza si è autoproclamato presidente eletto, annullando i risultati ufficiali e facendo appello alla comunità internazionale per il non riconoscimento di Tshisekedi;
  2. L’eventuale accordopre-elettorale tra Tshisekedi e Kabila, che è stato denominato “golpe elettorale” in danno di Fayulu, il quale in qualche misura rappresentava Shadaray come candidato fittizio del PPRD.

   Tuttavia, le dichiarazioni dei prelati congolesi, riuniti in quella conferenza, specialmente quelle basate a Kinshasa (perché, come si è visto alla fine di gennaio dell’anno corrente, i vescovi di Kasai hanno riconosciuto la legittimità di Tshisekedi), non solo denotano una divisione interna della CENCO, ma sono anche permeate da due vizi di validità:

a). il vizio di imparzialità

b). il vizio sostanziale

   Relativamente al primo vizio, si denota che, per aver incoraggiato, organizzato o partecipato alle manifestazioni pacifiche anti-Kabila, nel 2017 (con più di 150 chiese cattoliche coinvolte nell’organizzazione, secondo il quotidiano La repubblica), per esigere il rispetto dell’Accordo di San Silvestro del 2016, che prevedeva la realizzazione delle elezioni nel 2017 senza la partecipazione di quest’ultimo (tali manifestazioni sono un diritto politico dei congolesi), e nel 2018 (Cfr. L’indro, che in un articolo pubblicato il 19 gennaio 2018, rivela la convocazione della manifestazione da parte della stessa chiesa), divenne implicita o esplicitamente l’ inclinazione politica di questo organismo socio-spirituale e politico congolese.

   Questa inclinazione può aver già rivelato (anche prima delle elezioni, con o senza Kabila) la preferenza della Chiesa Cattolica e dei cattolici congolesi in relazione ad un determinato candidato politico che non fosse Kabila o qualcun altro da lui scelto o supportato, nel caso Shadaray. Detto questo, nel periodo post-elettorale nel 2019, a meno che tale preferenza non era congruente con se stessa, il sostegno dei risultati contrari a quella preferenza/inclinazione politica, sarebbe del tutto controproducente e contraddittorio.

   In altre parole, anche se i risultati dei conteggi paralleli fossero stati veri (e con ciò non intendiamo che fossero falsi), cioè che Fayulu era il vincitore e il Tshisekedi il vinto, alla luce delle posizioni ipotizzate in precedenza contro Kabila ed il suo partito nel 2017 e nel 2018, i Kabilisti avrebbero ugualmente gridato ai quattro venti la loro nullità di fronte all’imparzialità presunta da CENCO per mezzo di ciò che è stato detto, rimettendo quei risultati in discredito, anche pizzicando il ruolo di mediatore nell’ambito dell’accordo del 31 dicembre 2016.

   Il secondo vizio si riferisce all’informazioni diffusa (fondata in parte sulla discrepanza tra risultati ufficiali e non ufficiali e sul primo vizio), secondo cui Kabila avrebbe fatto un accordo pre-elettorale per condividere/consegnare il potere presidenziale a Tshisekedi. Tale informazione, se non fattuale, può avere come scopo, da un lato, di giustificare l’annunciata frode elettorale e, dall’altro, dare sfogo alla vittoria preordinata di un candidato che non fosse né Sharaday (PPRD) né Tshisekedi (UPDS), il che avrebbe senso per le preoccupazioni di certi circoli mondiali e africani.

   In ogni caso, questo secondo vizio, che è attribuito alla CENCO solo in via secondaria, può essere annullato davanti alla risposta documentaria alla seguente domanda: dove sono le prove di questo accordo?

   Tali prove sarebbero utili al case-study della transizione politica nel continente africano.

   Nel frattempo, vale la pena notare che nell’ambito del processo di approfondimento della democrazia in Africa (cfr Issau Agostino, Ana Figueroa, et al., Democratization’s Trajectory through change and continuity in Sub-Saharian Africa, 2017) emergono quasi sempre tre questioni:

  • La dicotomia trademocrazia e sovranità, nella misura in cui le autorità governative dei paesi interessati, che difendono la sovranità nazionale, guardano con un certo scetticismo al sostegno finanziario e/o materiale che viene solitamente inviato dall’UE e dagli altri Stati occidentali per l’organizzazione e la realizzazione dei processi elettorali. In alcuni casi, tale sostegno è percepito come un’ingerenza negli affari interni dello Stato o anche come supporto indiretto per alcuni candidati, in particolare dell’opposizione, attraverso le posizioni pubbliche delle entità politiche dei paesi donatori di questo sostegno finanziario o materiale. Il governo congolese, guidato da Kabila, ha espresso soddisfazione per aver finanziato per intero le elezioni del 30 dicembre 2018, negando tutto il sostegno esterno. In quest’ottica, le autorità locali hanno optato per mantenere la sovranità in materia elettorale per negare l’appoggio esterno, e questo può essere indicativo della percezione che avevano nei confronti delle intenzioni dietro il sostegno da dare alla Repubblica Democratica del Congo.

  • Il gioco degli interessi dei paesi stranieri, di regola, è quello di promuovere una politica estera volta a sostenere i diritti umani, il buon governo e lo stato di diritto, che sono principi universali già sanciti nelle costituzioni della maggior parte dei paesi che hanno abbracciato l’apertura democratica sia nel secondo dopoguerra (per gli stati europei e anche gli Stati Uniti, al fine di espandere i diritti civili e politici ai neri e alle donne) sia dopo la guerra fredda (per l’Africa e la CEI) . In alcuni casi,tuttavia, l’assunzione di questa politica estera da parte della maggioranza dei paesi occidentali verso l’Africa serve solo come pretesto per affermare con la forza i loro interessi materiali e finanziari nel continente africano e nel resto dei paesi in via di sviluppo, quando attraverso la cooperazione bilaterale e il rispetto reciproco della sovranità tali interessi non sono realizzati (il dilemma tra la sovranità e il diritto internazionale).

  • La complicità dei partners africani, grosso modo, succede per ragioni del mantenimento del potere ad ogni costo per le stesse forze politiche che governano i paesi africani dopo l’indipendenza a scapito della liberalizzazione e dell’approfondimento democratico dei loro paesi.Si tratta di un’élite politica africana che forma una dinastia politica di tipo mafioso, che se auto sostiene in tutti gli eventi regionali, africani e internazionali. Nella SADC, ad esempio, sebbene una dozzina di paesi membri abbiano eletto nuovi presidenti negli ultimi due anni, in realtà, questi presidenti provengono dagli stessi partiti politici che hanno governato i loro paesi per decenni. D’altra parte, la complicità può anche essere interna alla stessa UA, che, per esempio, non ha un’autonomia finanziaria totale, con il 72% del suo bilancio finanziato dall’esterno (Cfr. The East African), e ciò lascia una finestrina per l’intervento dei finanziatori in vari capitoli dell’operazione dell’UA, dal concepimento all’attuazione della sua politica estera.

   Pertanto, la promiscuità apparente (palese o latente) della Chiesa cattolica nella RDC negli affari di Stato Congolese, in contraddizione con il principio di laicità dello stato di tipo liberale, e la separazione tra esso e la chiesa, cioè tra il potere temporale (degli uomini, della polis) e il potere spirituale (la chiesa, il clero) – principio che è valido anche nella stessa Europa (qualcuno ha mai visto un vescovo dire che le elezioni in Italia o in Francia fossero o meno giuste?) – è solo una punta di iceberg in un mare di molti problemi e debolezze delle istituzioni, dello Stato e del rafforzamento democratico in vari paesi africani, sia per ragioni interne che esterne, o entrambe, condizionandosi in modo permanente.

   Tuttavia, se in ciascuna elezione in uno di questi paesi, le preferenze degli attori esterni (locali o stranieri) continuano a imporre agli elettori attivi e passivi la scelta tra democrazia e sovranità, quest’ultima continuerà a prevalere anche se le autorità governative devono usare demagogia di fronte alla ragione della forza dei loro oppositori, paradossalmente rimandando il rafforzamento dei processi democratici promossi dall’estero sine die.

Dr. Issau Agostinho

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