Dopo aver riformato il lavoro e la scuola, il Presidente del Consiglio vuole completare il suo progetto di rinnovamento del paese attraverso una modifica costituzionale che dovrebbe portare più stabilità e governabilità al sistema. Il futuro politico del giovane premier fiorentino passa dalle urne ed è appeso ad un “Sì”, o forse no.
Mi vogliano scusare i lettori per il gioco di parole del titolo, ma mi è parso un buon modo per introdurre l’analisi del voto che il popolo italiano dovrà esprimere Domenica 4 Dicembre.
Il Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ha infatti più volte manifestato l’intenzione di legare il futuro della sua permanenza a Palazzo Chigi all’esito referendario.
In caso di vittoria del “No” infatti, ha “minacciato” di dimettersi dall’incarico, salvo poi fare retromarcia affermando che le valutazioni sulle sue eventuali dimissioni da Premier verranno fatte in seguito.
Il motivo di questa “personalizzazione” (come da più parti è stata definita) del referendum, sono da ricercare nel complesso gioco di equilibri politici che ha portato l’ex sindaco di Firenze a ricoprire il ruolo di Primo Ministro.
Di fatto nessuno, al momento delle ultime elezioni politiche del 2013, aveva previsto lo scenario che si è concretizzato. Dopo un sostanziale pareggio tra le principali forze politiche e la grande difficoltà a formare un governo e a rinnovare le più alte cariche dello stato, Matteo Renzi, forte dell’elezione a segretario del partito (PD cioè Partito Democratico) che, seppur di molto poco, aveva ottenuto la maggioranza dei voti, ha ottenuto la fiducia del Parlamento attraverso un accordo di coalizione tra “centrosinistra” e “centrodestra”. L’accordo di governo, che sostanzialmente è portato avanti dalle stesse forze che in un primo momento avevano accordato la fiducia al governo di Enrico Letta e che avevano rieletto Giorgio Napolitano per la seconda volta Presidente della Repubblica (circostanza finora unica nella storia repubblicana italiana), è un accordo pragmatico basato più che su affinità ideologiche su specifici obiettivi, di cui la riforma costituzionale rappresenta sicuramente una parte sostanziale.
E’ inevitabile quindi che il risultato della consulta popolare (resa obbligatoria dal fatto che in Parlamento la riforma è stata approvata a maggioranza semplice e non a maggioranza qualificata dei due terzi come previsto dalla Costituzione stessa) sia decisivo per il riconoscimento di legittimità all’operato di Governo e Parlamento, già fortemente messo in dubbio dalla pronuncia della Corte Costituzionale che ha dichiarato illegittima la legge elettorale con cui sono stati eletti gli attuali delegati popolari di Camera e Senato.
Detto in parole povere, se la volontà popolare nel referendum dovesse risultare differente dalla volontà del governo, presieduto da un “presidente non-eletto” (un termine che spesso i membri dell’opposizione usano per riferirsi a Renzi) e sostenuto da una maggioranza parlamentare eletta con una legge dichiarata incostituzionale, sembra inevitabile che il Presidente della Repubblica, che nel frattempo è diventato Sergio Mattarella, anche grazie al lavoro parlamentare di Renzi dopo le dimissioni di Napolitano, debba sciogliere le Camere e indire nuove elezioni. Appunto però “sembra”, non è detto che tale evento avvenga in caso di vittoria del “No”, né tanto meno è scontato che il Premier si dimetta.
Nello specifico, la riforma Boschi (dal nome del Ministro Maria Elena Boschi, promotrice della riforma) riguarda principalmente: il ruolo delle due camere (con il superamento del cosiddetto bicameralismo perfetto); la composizione e l’elezione del Senato (che verrà composto da 74 delegati dei consigli regionali, più 21 sindaci di città dei medesimi territori ed eventuali senatori a vita, e vedrà così ridotto il numero dei componenti); alcune parti dell’iter legislativo; alcune specificità tecniche riguardanti l’elezione del Presidente della Repubblica, dei giudici della Corte Costituzionale, delle leggi di iniziativa popolare e dei referendum abrogativi (vengono cambiate le maggioranze richieste e la tempistica di elezione di presidente e giudici, e vengono aumentate il numero di firme richieste per la presentazione di leggi d’iniziativa popolare e referendum abrogativi); ed infine le competenze riservate a Stato e Regioni (vengono soppresse le materie di legislazione concorrente appunto tra Stato e Regioni).
Come spesso accade in Italia l’opinione pubblica, l’opinione degli esperti e delle varie forze politiche si contrappongono.
Il governo è impegnato in maniera profonda nella propaganda a favore del “Sì”.
Il Premier e il ministro Boschi da settimane girano l’Italia in lungo e in largo organizzando meeting, in cui spiegano il loro punto di vista ed il perché bisogna essere a favore della riforma, in presenza dei loro uomini di fiducia e dei loro sostenitori a livello locale.
Hanno speso inoltre cospicue risorse per campagne pubblicitarie nelle grandi città, in cui nei manifesti si suggerisce il voto favorevole con slogan diretti e piuttosto “populisti”, come ad esempio: “Cara Italia, vuoi abbassare i costi della politica? Basta, un Sì.”.
Non spetta a me comunque giudicare le strategie di comunicazione delle due parti, ma mi limito a notare una certa somiglianza di linguaggio e stile con uno dei partiti di opposizione più avverso al Premier che è il Movimento 5 Stelle.
Evidentemente ad alcune dinamiche socio-politiche elettorali non ci sono vie di scampo.
Il principale argomento retorico utilizzato dal governo è il desiderio di cambiamento e innovazione, adducendo ai sostenitori del “No” una sorta di immobilismo atto a lasciare le cose come stanno, con tutti i problemi che tale immobilismo comporta. Primo fra tutti l’eccessiva instabilità dell’esecutivo, che in 70 anni di storia repubblicana ha portato alla composizione e alla dissoluzione di ben 63 governi.
Non dimentichiamo mai però, che quando parliamo d’Italia, parliamo di un sistema paese che Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel suo romanzo più famoso “Il Gattopardo” ben descrisse con la celebre frase: “Bisogna che tutto cambi perché tutto rimanga com’è.”.
Altre argomentazioni a favore del “Sì” sostenute dal governo sono la riduzione del “costo della politica” (argomento con forte appeal elettorale, indipendentemente dalle ideologie) e la semplificazione del processo legislativo.
Sul fronte del “No” invece, oltre che alla divertente ma altrettanto semplicistica opinione che in passato (fino a 25-30 anni fa, quando la Germania non era ancora unificata o se lo era non si presentava ancora come il colosso economico e politico che rappresenta oggi) l’Italia era una delle principali potenze economiche del mondo, la prima non atomica, le principali argomentazioni contro la riforma sono: il fatto che il sistema che ne verrebbe fuori (secondo i costituzionalisti e gli esperti contrari, ad esempio Gustavo Zagrebelsky per nominarne uno) è un sistema in cui il governo viene investito di enormi poteri, non adeguatamente controbilanciati, rischiando così di legare troppo le istituzioni con l’autorità dell’esecutivo; la confusione anziché semplificazione che il processo legislativo subirebbe con la nuova costituzione; in ultimo la non effettività reale del taglio dei costi della politica visto che nulla è ancora previsto per quanto riguarda i compensi e le indennità che i nuovi senatori dovrebbero ricevere.
Un aspetto da non sottovalutare assolutamente per analizzare le due posizioni è proprio la questione, di cui abbiamo scritto all’inizio, della “personalizzazione” del referendum.
Pare infatti che più che sulla riforma in se, il voto rappresenti un voto politico su Renzi e sul suo operato.
Nel fronte del “No” infatti si ritrovano insieme schieramenti politici solitamente opposti.
I contrari alla riforma spaziano dalla sinistra radicale (Sinistra Italiana, Comunisti Italiani e altri piccoli movimenti), passando per alcune correnti dello stesso partito di centrosinistra del premier (Massimo D’Alema, importante rappresentante del PD ha fatto campagna per il “No”), fino ad arrivare a partiti orientati al centrodestra, alla destra e al neo fascismo (Forza Italia, partito dell’ex premier Silvio Berlusconi; Fratelli d’Italia, guidato da Giorgia Meloni; Lega Nord del segretario Matteo Salvini, che come base elettorale non disdegna collaborazioni con movimenti e partiti apertamente fascisti e xenofobi come Casapound e Forza Nuova).
Il vero competitore elettorale, e quindi vero pericolo per il premier, sembra essere rappresentato comunque dal Movimento 5 Stelle, fondato dal comico Beppe Grillo ormai qualche anno fa.
Il grande consenso elettorale che il partito (o movimento come preferiscono definirlo i suoi simpatizzanti) ha ottenuto negli ultimi anni ha portato il Partito Democratico a subire alcune clamorose sconfitte elettorali alle elezioni amministrative. A Roma e a Torino in particolar modo i candidati sindaci del partito del Premier sono stati bocciati dall’elettorato che ha preferito affidare l’amministrazione comunale ai candidati del Movimento 5 Stelle.
Il M5S fa parte insieme agli altri precedentemente nominati del fronte del “No”.
Anche la politica internazionale ha espresso, più o meno lecitamente, la sua opinione a riguardo.
La riforma è stata infatti appoggiata dall’Ambasciatore statunitense in Italia, e recentemente con la visita negli USA di Renzi anche dallo stesso presidente Barack Obama, da svariati partiti presenti nel Parlamento Europeo e dall’Unione Europea stessa.
La partita probabilmente si giocherà fino all’ultimo giorno e fino all’ultimo voto, considerando che, da una parte la voglia di cambiamento all’interno del paese è ben presente, ma dall’altra è altrettanto ben presente nella società italiana la consapevolezza espressa in un detto popolare che: “chi lascia la strada vecchia per quella nuova, sa quel che lascia ma non sa quel che trova”.
La sfida è quindi tutta del Premier Renzi, riuscire a convincere gli italiani che la sua riforma e con lui al governo la strada nuova sarà migliore di quella vecchia.
L’ultima parola sarà delle urne.
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