La crisi siriana è considerata la nuova guerra fredda tra Russia e Stati Uniti, i due principali attori stranieri del conflitto, ormai settennale, che oppone il governo legittimo del presidente Bashar Al-Assad, appoggiato da Russia e Iran, alle forze ribelli rappresentate dalle “Syrian Democratic Forces” sostenute dagli Stati Uniti e dai suoi alleati della NATO, in particolare Francia e Regno Unito. Questo quadro è estremamente sintetico, e può non delucidare pienamente la complessa situazione militare e quella degli attori statali e non statali che intervengono nel conflitto a favore di una o dell’altra parte cui interessi geopolitici superano la semplice pretese di un “regime change” in Siria.
La guerra fredda non è finita nel 1989 ed, in realtà, è tutt’ora in vigore nonostante la caduta del Muro di Berlino nel 1989, che ha permesso la riunificazione della Repubblica Federale Tedesca (sostenuta dalle potenze occidentali) e la Repubblica Democratica Tedesca (sostenuta dall’Unione Sovietica) nel 1990.
Per avvalorare la tesi della non fine di quel confronto ideologico tra Est ed Ovest si può portare come esempio il latente stato di guerra tra le due Coree, che mai hanno firmato un trattato di pace alla fine del conflitto durato tra il 1950 e il 1953, che tutt’oggi è regolato da un armistizio, di fatto una pace armata.
Da quella data la Corea del Nord ha sviluppato una propria capacità missilistica e nucleare, il cui smantellamento sarà sul tavolo delle trattative tra Donald Trump e Kim Jong Un possibilmente in Maggio di quest’anno.
Gli anni tra il 1989 e il 1991 rappresentano la fine dell’Unione Sovietica e il dominio a livello globale dell’unica superpotenza rimasta: gli Stati Uniti d’America. L’ascesa degli Stati Uniti ad unica potenza mondiale capace di influenzare il corso degli eventi globali nel campo della difesa e della sicurezza (incluso la proliferazione di regimi politici ed economici di tipo liberale) ha avuto come prima dimostrazione il bombardamento, ordinato da Washington, effettuato dalla NATO sulla Serbia nel 1999 con la Russia incapace di reagire a difesa di un paese che fino a poco tempo prima apparteneva alla propria sfera di influenza. A questo punto nacquero addirittura teorie su una presumibile fine della storia basate sull’unilateralismo della diplomazia e nell’unilateralismo del sistema internazionale.
Così la fine della guerra fredda era in realtà la ritirata della Russia dalla realpolitik, cioè dalla politica di potenza nel contesto internazionale, ma non la sua definitiva sconfitta almeno dal punto di vista geostrategico (contrariamente al Sud Africa la Russia ha mantenuto il suo deterrente nucleare).
In condizione di unilateralismo e unipolarismo, il sistema internazionale è storicamente antidemocratico attraverso le azioni di una potenza dominante di natura dittatoriale ed imperiale, cui obiettivo è massimizzare i propri interessi a scapito dell’equilibrio e della rappresentatività del sistema. Pensiamo ad esempio all’invasione dell’Iraq nel 2003, alla destituzione e alla condanna a morte del Presidente Saddam Hussein avvenuta nell’auge dell’unipolarismo del sistema negli ultimi vent’anni.
Ora, quella che oggi è chiamata la nuova guerra fredda, o se vogliamo guerra fredda 2.0, è il ritorno della Russia, che più che assertiva sul piano internazionale, vuole consolidare – dal punto di vista del potere militare, ossia della pace e della sicurezza internazionale – il sistema multipolare in vigore da qualche anno, cui rinascita è coincisa con il terzo mandato presidenziale di Putin, iniziato nel 2012, e l’ascesa di Xi Jinping in Cina. Curiosamente questo periodo è stato caratterizzato dalle Primavere Arabe nei paesi del MENA (Medio-oriente e Nord Africa) che portarono tra le altre cose alla destituzione e all’assassinio del leader libico Gheddafi col coinvolgimento della NATO.
Oggi, la presenza e la difesa agguerrita che la Russia garantisce alla Siria e al regime di Assad evoca il fantasma di un declino della potenza statunitense e molte preoccupazioni ai paesi membri della NATO (con l’eccezione forse della Turchia), in primis proprio agli Stati Uniti, che tengono il comando militare dell’alleanza (gli europei dirigono il segretario attraverso componenti civili) dato che Mosca sembra determinata ad evitare che la Siria si trasformi in un nuovo Iraq o Libia.
Detto questo, se 59 missili Tomahawks nell’Aprile del 2017, lanciati dall’amministrazione Trump contro la base siriana di Shayrat (unilateralmente senza l’avvallo del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite) in risposta al supposto uso di armi chimiche da parte di Assad contro le popolazioni di Khan Sheikhoun, non sono stati contrastati dai sistemi antiaerei russi S-400, questa volta le autorità moscovite hanno annunciato che qualunque attacco contro obiettivi militari russi avrebbero comportato una reazione.
Ovviamente, non si nasconde che uno dei motivi dell’intervenzionismo russo in Siria sta nel fatto che è proprio qui che la Russia possiede la sua unica presenza nel Mar Mediterraneo, con la base militare di Tartus, che realizza la visione strategica di Pietro il Grande, che aveva previsto l’importanza per la sicurezza russa di questa regione molto prima che Caterina II conquistasse la Crimea nel XVIII secolo, che ha permesso alla Russia l’accesso al Mar Nero. Da questo si deduce che mai i russi permetteranno un mutamento dello status quo che metta a rischio la sua permanenza a Tartus e di conseguenza nel Mediterraneo (Tim Marshall, Le 10 mappe che spiegano il mondo, 2015).
Oltre a questo, il multipolarismo attualmente vigente crea serie difficoltà al riconoscimento dell’autorità univoca pretesa dagli Stati Uniti nel sistema, incluso in seno alla NATO, dove ad esempio la Turchia è sempre più vicina alla Russia, da cui ha acquistato i sistema di difesa antiaerea S-400, e che ha provocato ira agli altri membri dell’alleanza. Ankara e Washington hanno inoltre posizioni contrastanti riguardo ai curdi, appoggiati da Washington ma combattuti da Ankara, come si è recentemente visto nella regione siriana di Afrin, dove i militari turchi hanno occupato la città a spese dei curdi.
Oltre al fronte militare, la guerra commerciale in corso tra Washington e Pechino risalta la contestazione all’egemonia americana nel sistema incluso a livello economico e finanziario con il lancio del Petro-Yuan, la divisa internazionale con cui la Cina vuole iniziare a pagare il petrolio, sostituendo i Petroldollari in vigore dal 1971. Col Petro-Yuan, che potrebbe iniziare a funzionare già dai prossimi mesi, la Cina vuole porre fine al monopolio del dollaro sulle transazioni internazionali.
La Cina del presidente Jinping, che ha ottenuto un rinnovo di mandato con una modifica che gli permetterà di essere rieletto senza limite di mandati e la stessa Russia, che ha rinnovato la fiducia a Putin nelle ultime elezioni presidenziali, sono state classificate come le minacce più rilevanti all’egemonia statunitense nell’ambito della nuova dottrina di Washington, recentemente resa pubblica dall’amministrazione Trump che di per se indica la piena coscienza delle autorità politiche e militari statunitensi delle legittime aspirazioni e interessi delle due nel balance of power.
Con maggior o minor probabilità Washington cercherà di imporsi che sia in modo unilaterale, che sia in sintonia con i partner europei di fronte alle due potenziali avversarie mondiali, per riaffermare il dominio sul sistema, soddisfacendo il presupposto rilanciato dal segretario alla difesa dell’attuale amministrazione secondo la quale: “O si negozia con i nostri diplomatici, o si affronta il potere militare degli Stati Uniti”. Il successo di questa prospettiva dipenderà non tanto dalla capacità, ma dalla volontà degli avversari di reagire o di ignorare tale proposizione.
Tuttavia, la strada che sembra essere privilegiata per trattare tanto con la Russia (confronto militare), quanto con la Cina (guerra commerciale) non sembra essere la più sensata, in quanto a due decadi di distanza dalla caduta del muro di Berlino questi due paesi sono riemersi nel contesto globale cambiando il sistema internazionale vigente da quel momento negando agli Stati Uniti il predominio unilaterale del sistema. Ora, in questo caso, la dottrina di engagement dev’essere la bussola per orientarsi nelle relazioni bilaterali e multilaterali tra gli attori, a pena di esacerbare la tenue pace e sicurezza internazionale.
All in all, se Washington non sarà incline ad accettare questo cambiamento dello status quo e dell’equilibrio delle forze a livello regionale e internazionale, o se le due principali potenze sfidanti (Mosca e Pechino) non saranno più tolleranti in relazione a questo, ci si può aspettare che la così chiamata guerra fredda (la lotta per il riconoscimento della superiorità sulla potenza avversaria, soprattutto tramite guerre per procura) si riaccenda e continui per lunghi anni, con anche la possibilità di confronti diretti tra le potenze. In entrambi i casi la visione paternalistica e egemonica avrà effetto solo in relazione ai paesi minori del sistema.
Articolo tradotto dal Dott. Giuseppe Difrancesco
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