Nel contesto delle relazioni economiche e commerciali internazionali, il volume del debito pubblico degli Stati determina la forza della sua economia, il saldo della bilancia commerciale e l’autonomia delle misure che vengono adottate dal potere politico istituito senza vincoli esterni. Tuttavia, nel contesto attuale, i creditori internazionali degli Stati sembrano limitare le sovranità nazionali. Cui bono?
Il dibattito in corso sulla crisi dello Stato-nazionale moderno (in contrasto con le antiche città-stato greche, ma anche africane, se si considera la struttura politica di diversi regni africani esistenti nel periodo precedente l’espansionismo europeo nel continente), in particolare nello spazio europeo e nell’Occidente in generale, si propone di studiare e spiegare l’apparente indebolimento dell’influenza e della funzione dello Stato-nazionale dopo l’avvento (diciamo, la rinascita) della globalizzazione e dello Stato di diritto (contrariamente allo Stato degli uomini), che si è sviluppato dalla fine dell’Ancien Régime nel XVIII-XIX secolo.
Nonostante una breve assenza dello Stato liberale (soprattutto politicamente) nei periodi intermedi delle due guerre mondiali (che curiosamente il Prof. PLO Lumumba ha designato come guerre etniche europee), l’istituzionalizzazione del sistema di Bretton Woods, che ha incluso la creazione del Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale, seguita dalla Organizzazione mondiale del commercio, rilanciò lo stato liberale, che sopravvisse anche durante il periodo di confronto Est-Ovest, ottenendo ulteriore input durante l’era Reagan-Thatcher, che ha attuato il cosiddetto neoliberalismo nelle loro politiche economiche.
In effetti, lo Stato-nazionale, che può essere inteso come quell’organizzazione super partes, ha lasciato il posto allo Stato liberale, che è anche super partes, la cui principale distinzione risiede nel fatto che mentre il primo può essere di tipo assistenzialista, poiché risulta dalla costruzione che va dal basso verso l’alto, cioè, dalle masse ai governi, che devono comunque osservare le leggi proprie di uno Stato di diritto, il secondo tipo di Stato, il liberale, oltre alla sua funzione che deve essere minima, vale a dire “Stato minimo” (cfr. Norberto Bobbio, 1984), non è per così dire assistenzialista, ma meritocratico, promuovendo l’iniziativa individuale come la virtù principale in un’economia di mercato, la stessa che opera anche nello Stato-nazionale.
In altre parole, lo Stato-nazionale e lo Stato liberale sono una dicotomia che significano la stessa cosa: uno Stato super partes e di diritto, anche se con visioni divergenti sul welfare comune.
Pertanto, il discorso accademico in corso sulla crisi dello Stato-nazionale nei confronti dello Stato liberale risiede nell’idea del primo di aver perso importanti funzioni sovrane quale Leviatano – parafrasando Hobbes – nell’ambito economico e finanziario, restandogli come principale attributo quello del regolatore del mercato e della pubblica sicurezza. In questo Stato, anche l’azione sociale e le iniziative comunitarie sono ora fortemente promosse da organizzazioni chiamate Multi Level Governance. Come se non fosse abbastanza, con la devoluzione costante delle prerogative governative al potere locale, lo Stato-nazionale centralista di tipo giacobino fu in seguito svuotato della sua essenza primitiva.
A livello del discorso politico, è evidente la retorica dei partiti europei di destra che sostengono il ritorno delle prerogative sovrane dello Stato-nazionale, il che sarebbe in antitesi con il discorso della “identità europea” e l’Unione europea; così come una retorica anti-globalista e anti-liberista (strano!?), ma pro-patriottica e pro-protezionista, come recentemente visto nel discorso del presidente Trump durante la 73° sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite.
Lo Stato liberale o neoliberale (o se si vuole, neoliberista), così come le organizzazioni sovranazionali come l’Unione europea, sembrano essere i destinatari di questa critica politica dei partiti e dei governi europei di estrema destra e di destra, oggi, quando, stranamente, per più di cinque decenni, è stato lo stesso Stato liberale che ha gettato le basi per la prosperità economica e sociale degli europei e di altri occidentali.
È proprio qui che sta il paradosso di questa critica, cioè lo Stato liberale sarebbe stato criticato 40 anni fa? O c’è un filo rosso dietro questa attuale corrente anti-liberale in voga?
In effetti, c’è una ragione finanziaria dietro questo sentimento anti-liberale e anti-globalizzazione, che si traduce nell’elevato debito pubblico che lo Stato-nazionale deve affrontare nei confronti delle principali agenzie di credito internazionali. Questo può essere derivato dalla speculazione finanziaria e dalla finanziarizzazione delle relazioni commerciali. In ottica di John Eatwell, citato da Noam Chomsky, “nel 1970 circa il 90% del capitale internazionale era destinato al commercio e agli investimenti a lungo termine, mentre il restante 10% era investito nella speculazione. Nel 1990, questi dati si sono completamente invertiti: il 90% era per la speculazione e il 10% per gli scambi e gli investimenti a lungo termine” (Chomsky, 2017: 83).
Nonostante una serie di strumenti creati dall’Ue, che mirano a controllare l’equilibrio tra debito pubblico/Pil e deficit/Pil degli Stati membri nel quadro del Patto di stabilità e crescita (Psc), gli Stati con un elevato debito pubblico sono principalmente membri dell’Unione Europea e dell’Eurozona, come l’Italia (che ha un rapporto debito/Pil del 131%), il Portogallo (debito/Pil del 125%) o la Grecia (debito/Pil di 179%), superando la media Ue dell’84%. Il budget dello Stato italiano per il 2019 (con un governo di destra), che fornisce un deficit in rapporto al Pil del 2,4%, solleva una serie di critiche da Bruxelles, per superare un limite imposto dal Psc, causando un aumento dello Spread tra i titoli dello Stato italiano (BTS), considerati meno virtuosi, e quelli tedeschi (Bund), i più virtuosi dell’Eurozona.
Lo scontro tra le istituzioni finanziarie europee e il governo italiano è solo un altro caso che mostra il percorso di collisione tra lo Stato-nazionale (che cerca di recuperare la sua sovranità in materia economica e finanziaria) e le istituzioni finanziarie (che cercano di mantenere lo status quo del secondo dopoguerra e la prosperità portata dal liberalismo economico e politico nel quadro dello Stato liberale).
Tuttavia, le conseguenze dell’elevato debito pubblico (oltre il 60% del Pil per ogni economia, anche se la misura è arbitraria) non sono limitate ai paesi occidentali, giacché lo stesso si verifica anche nei paesi in via di sviluppo. Ad esempio, lo Zambia, con un Pil stimato in 16 miliardi di dollari, ha un debito con la Cina di circa 6 miliardi di dollari, pari a 1/3 del Pil. L’insolvenza apparente contro il creditore avrà permesso il controllo cinese della società di mezzi di comunicazione pubblici dello Zambia, il cui quotidiano Times of Zambia è stato pubblicato in parte in mandarino in uno dei suoi ultimi numeri, mentre l’Angola, il più grande debitore africano della Cina, ha un debito stimato in 23 miliardi di dollari solo in confronto del tigre asiatico, che rappresenta circa il 54% del debito estero totale angolano, e durante gli ultimi anni del governo precedente è stato ipotizzato (nessuna prova) che lo Stato angolano avrebbe dato come garanzia parte della provincia di Kuando Kubango, che stranamente confina a sud con lo Zambia.
Pertanto, mentre l’Occidente sembra saturo del modello di gestione neoliberista degli ultimi trent’anni, fortemente contestato dai governi di destra e di estrema destra in Italia, in paesi del V4, così come dalle forze populiste in Germania, in Svezia e nel Regno Unito, tra cui l’attuale amministrazione Trump negli Stati Uniti, la Cina emerge come un campione di questo tipo di Stato, come il principale sostenitore del liberalismo commerciale, le cui ambizioni geopolitiche cominciano a condizionare la sovranità dei paesi non in grado di saldare il debito pubblico.
In generale, se lo Stato-nazionale (o quello che ne rimane) non equilibrerà i suoi conti pubblici con i creditori neoliberali, continueremo ad assistere, da un lato, all’ulteriore declino della sovranità nazionale, e, dall’altro, più forze politiche e governi di destra o di estrema destra in Occidente rivendicheranno il ritorno delle prerogative sovrane in una costante lotta esistenzialista (tra welfare e laisser-faire) che prima o poi dovrà produrre effetti pacifici o dannosi collettivi.
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