Breve prospettiva sulla politica internazionale nel 2017

Durante l’anno appena concluso, una delle più grandi sorprese internazionali è stata l’elezione di Trump alla Casa Bianca, contro tutti i pronostici che indicavano la candidata democratica, Hillary Clinton, come vincitrice delle elezioni del novembre scorso.


La sorpresa sull’elezione del candidato repubblicano “anti-establishment” è dovuta alle proposte, con le quali si è presentato durante le primarie e durante il duello con la candidata democratica, idee che molti consideravano (considerano tuttora) come antitesi ai valori della società statunitense, sia in materia di politica di migrazione, Islam, rapporti con alleati europei e NATO, sia per la sua visione sulle due potenze mondiali: Cina e Russia.

Nel suo discorso ufficiale a Capitol Hill a Washington, lo scorso gennaio, Trump ha lanciato l’idea di “America First”, cioè, “Prima l’America”, richiamando slogan, sostenuti da lui stesso durante la campagna elettorale, accolti con favore dai suoi seguaci e sostenitori. Ma l’idea di “America First”, e tutto ciò che implica, non sembra piacere a tutti i cittadini, preoccupati che questo potrebbe contribuire all’isolamento degli Stati Uniti a livello internazionale. I suoi Executive Orders, che vietano sia l’entrata negli Stati Uniti da parte di cittadini di sette paesi musulmani, di cui tre africani (Sudan, Libia e Somalia) sia l’accettazione di rifugiati siriani nel paese, hanno provocato indignazioni e manifestazioni, ancora in corso negli Stati Uniti, ed anche una battaglia legale, che coinvolge diverse istituzioni esecutive, legali e di sicurezza contro la Casa bianca.

In queste condizioni di apparente disarmonia istituzionale, di protesta popolare e di sentimento anti-Trump, crescente fin dal suo insediamento (un recente sondaggio della CNN mostra un tasso di approvazione del 40% del suo operato, di cui il 90% sono repubblicani, il che implica che i democratici e gli indipendenti non si rivedono nei suoi programmi di governo e nella sua personalità), gli Stati uniti difficilmente saranno in grado di mantenere (uniti) con successo la propria influenza al di là dei confini.

A livello esterno (e cominciando a parlare degli Stati Uniti per il simbolismo che caratterizza l’ambito della politica estera a livello mondiale), è importante notare quanto segue: c’è il rischio che “America First” diventi “America alone” vale a dire, “America sola”, proprio perché la sostanza dietro “America First” può nascondere una costante, attraverso principi e impegni internazionali, che nel corso degli 70 anni aveva garantito agli Stati Uniti la percezione di una nazione eccezionale e di vera potenza mondiale.

Vale a dire, da un lato, gli Stati Uniti sono fondamentalmente una nazione di immigrati (ad esempio, il nonno di Trump era tedesco, la madre dalla Scozia, mentre la moglie della Slovenia). Secondo i dati, oltre il 45% di imprenditori e innovatori, nell’ambito del TIC, sono cittadini statunitensi di genitori immigrati negli Stati Uniti.

Dall’altro lato, la costante critica verso la NATO e verso gli alleati europei nel breve periodo potrebbe fomentare correnti politiche xenofobe in Europa (ad esempio, la francese Marine Le Pen del Fronte Nazionale, l’italiano Matteo Salvini della Lega Nord, il britannico Farage, ex leader di UKIP pro-Brexit, tutti di estrema destra, appoggiano la politica di Trump), nel lungo periodo, invece, potrebbe influenzare le relazioni bilaterali e multilaterali tra i paesi europei (soprattutto Francia e Germania) e l’Unione Europea. Tra l’altro, i primi segni europei anti-Trump sono avvenuti proprio durante il vertice di questa organizzazione a Malta due settimane fa, quando Hollande e Merkel hanno riconosciuto che il destino dell’Europa e dell’Unione Europea è nelle mani degli europei.

Inoltre, il quadro sopra menzionato lascia intendere un ripensamento della politica estera degli Stati Uniti, in cui gli antichi alleati possono trasformarsi in semplici partner diplomatici e i nemici storici, come la Russia, assumono tale dimensione uguale a quella degli anni delle due guerre mondiali, ma solo se otterrà una dimensione legislativa con il coinvolgimento della maggioranza repubblicana al Congresso (perché solo il Congresso fa le leggi. Gli ordini esecutivi hanno una durata limitata e possono essere annullati dal prossimo inquilino della Casa bianca, come lo stesso Trump pensa di fare con i decreti presidenziali approvati da Obama).

Tuttavia, tale situazione può ugualmente far presupporre all’orizzonte (sempre se appoggiato dal Congresso e dalla società civile statunitense) scenari in cui alcuni paesi, finora inoffensivi per gli Stati Uniti, possono essere visti come minacce per gli interessi di quest’ultimi. Naturalmente, questo scenario potrà modificare la natura delle relazioni statuali e l’equilibrio delle forze a livello mondiale nel breve e medio termine.

Detto questo, la relazione che l’amministrazione Trump stabilirà con la Cina determinerà il livello di sicurezza nel Pacifico, giacché i due paesi sono le più grandi potenze militari in quel corridoio, la cui prima visita all’estero del nuovo Segretario della Difesa, James Mattis, in Corea del Sud e in Giappone, mostra l’importanza che la stessa rappresenta per gli Stati Uniti di Trump.

Tuttavia, a quanto pare, la nuova amministrazione degli Stati Uniti è determinata a testare il livello di preparazione delle autorità cinesi, dicendo, ad esempio, che gli Stati Uniti non possono essere costretti a riconoscere “One China Policy”, cioè, l’idea secondo la quale Taiwan è parte della Cina, che è alla base dei rapporti tra Cina e Stati Uniti, a partire dagli anni ’70, nell’era dell’amministrazione Nixon. In primo luogo, un riconoscimento da parte dell’amministrazione Trump della sovranità di Taiwan potrà naturalmente aggravare il clima tra i due paesi nella regione, che potrà passare attraverso il confronto diplomatico, proxy war, guerra commerciale, guerra cibernetica o guerra anche convenzionale dalle dimensioni incalcolabili.

Per quanto riguarda la situazione medio-orientale, anche se l’amministrazione ha riconosciuto che i nuovi insediamenti israeliani nei territori occupati mettono in pericolo la pace nella regione (in violazione della risoluzione 2334/16 del 23 dicembre del Consiglio di Sicurezza dell’ONU), di fatto, la preoccupazione principale nella regione per l’amministrazione Trump, è l’Iran, che, secondo il segretario Mattis, sarebbe il principale sponsor del terrorismo globale. I test di un missile balistico iraniano alla fine di gennaio non solo violano la risoluzione 2231 adottata dalle Nazioni Unite nel 2015 ma anche parte dell’accordo nucleare tra l’Iran e i paesi occidentali, tra cui gli Stati Uniti dell’era Obama, come dimostra anche la sua intenzione di dotarsi di mezzi necessari alla difesa militare per la propria sovranità e l’esistenza nel caso di una guerra con i suoi nemici esterni.

La probabile trasformazione della Russia in alleato di Trump può, di fatto, essere una manovra che mira non solo a combattere i gruppi terroristici in Siria e altrove, ma anche ad incoraggiare la neutralità di Mosca in caso di una guerra convenzionale tra Stati Uniti e Cina; tra Stati Uniti e l’Iran; tra Stati Uniti e Corea del Nord, o addirittura contro il Messico, una guerra che potrà fare da sola,  dal momento che l’applicazione dell’articolo 5 della Carta NATO dipenderà dall’attaccante e dall’attaccato, quando si assiste ad una demoralizzazione europea in relazione al carattere del nuovo inquilino della Casa bianca.

Pertanto, il punto di vista della politica internazionale, per la sicurezza, per l’anno 2017 può essere visto come incerto, dipendente da fattori interni degli Stati Uniti (Congresso repubblicano, Congresso democratico, la società civile e i cittadini a resistere o a rinunciare all’ordine del giorno della Casa bianca) e fattori esterni (fino a che punto la Russia tollererà un’America di Trump nei confronti dei paesi amici, come la Cina e l’Iran).

Per quanto riguarda l’Africa, si consiglia di leggere il punto di vista della politica africana nel 2017.

Dott. Issau Agostinho

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