Lo stato di salute dell’Iran tra sanzioni e dissidi interni

In una fase di transizione storico-politica destinata a mutare nuovamente gli equilibri regionali del Medioriente, l’Iran si trova attualmente in una situazione di incertezza e precarietà dettata sia dai dissidi interni sia dalle altalenanti relazioni con gli attori internazionali. Lungi dall’aver concretizzato le ambizioni di un revival sciita, nei prossimi tempi il policymaking di Teheran dovrà districarsi su vari fronti problematici che determineranno il futuro dell’attuale leadership e la gradazione egemonica iraniana nell’arena internazionale. Dal JPCOA ai rapporti con Stati Uniti e Unione Europea, dalle sommosse popolari alle discordie tra Rouhani e l’establishment religioso, sono innumerevoli i fattori che diranno se l’Iran saprà indirizzare il proprio futuro o se invece subirà passivamente il peso degli eventi attuali.


   La costruzione e l’implementazione del cosiddetto arco sciita ha subito negli ultimi tempi una brusca frenata, costringendo l’Iran a rivedere i propri obbiettivi strategici nella regione. In un quindicennio, infatti, la potenza persiana era stata in grado di sfruttare gli eventi perturbanti del Medio Oriente per rafforzare la propria posizione laddove storicamente già presente e per estendere la propria sfera di influenza sino ad essere (ri)considerata un attore egemone, tanto dal punto di vista militare quanto dal punto di vista di un rinnovato soft power.

   Sebbene le basi ideologiche di questo impeto espansionistico risalgano alla Rivoluzione islamica del 1979, si ha avuto un primo segnale con l’intervento americano in Afghanistan nel 2001 che, esautorando dal potere i talebani sunniti, ha creato condizioni favorevoli per la penetrazione iraniana. Allo stesso modo, e forse ancor più determinatamente, la caduta di Saddam nel 2003 e il ritorno ai vertici della maggioranza sciita hanno ribaltato la percezione dell’Iraq da costante minaccia per la sicurezza ad accondiscendente interlocutore. In tempi più recenti, la crescente forza di Hezbollah ha giocato un ruolo estremante utile all’Iran per assicurare una decisa presenza in Libano. Infine, i successi nel conflitto siriano ottenuti dalla coalizione con Russia e Turchia sembravano aver avvicinato la Repubblica islamica a chiudere il cerchio del proprio percorso revanscista, a scapito dei rivali sauditi.

   Proprio questo sentore di un Iran in forte ascesa ha accresciuto nel tempo le preoccupazioni di Stati Uniti (e Arabia Saudita), i quali valutano la presenza di un aggressivo egemone mediorientale come un elemento inficiante per il loro sistema di check and balances.

   Il Nuclear Deal ed il fresco rinnovo delle sanzioni americane rappresentano due approcci alla questione iraniana che in alcune istanze ambiscono, seppur con strumenti differenti, ad obbiettivi molto simili. L’accordo sul nucleare (JCPOA) è figlio di un’azione multilaterale e collettiva portata avanti dai “5+1” sulla scia delle sanzioni decise dall’ONU tra il 2003 (anno del primo dossier sul nucleare iraniano) e il 2016, le quali richiamavano tutta la comunità internazionale alla necessità di limitare tale minaccia atomica. Se dal punto di vista diplomatico ha goduto di un certo spolvero di successo, nella produzione di conseguenze concrete si è rivelato soprattutto un accordo di compromesso lontano dai reali obbiettivi originari. In aggiunta a questa debolezza di fondo, dal punto di vista americano il Nuclear Deal si è dimostrato un espediente fragile e limitativo perché non ha tenuto conto di due fattori in ascesa, ma ancora poco decifrabili nel 2015: il livello di know-how del programma balistico e l’aumento dell’influenza iraniani nella regione.

   Le sanzioni da poco rinnovate dall’amministrazione Trump riservano un’ostilità maggiore e lasciano trasparire una pianificazione volta a stringere l’Iran in una morsa politico-economica. È facile notare che, nel lasso di tempo esente da sanzioni, la cospicua produzione di idrocarburi dell’Iran sia ripartita a gonfie vele, toccando picchi di aumento vicini al 60% e spingendo il PIL ad una crescita del 13%. Il rovescio della medaglia, però, mostra che gli effetti della prima tornata di sanzioni hanno ridotto la disponibilità monetaria nelle mani di Teheran, costringendo il governo a tagliare i tradizionali sussidi pubblici in un periodo in cui il prezzo dei beni di prima necessità è più che duplicato. Tenendo conto della consistente capacità produttiva e di esportazione dell’Iran e, al fine di evitare un insostenibile apprezzamento del greggio sul mercato, gli Stati Uniti hanno concesso ulteriori sei mesi di tempo ai nove maggiori importatori di petrolio iraniano , prima di tagliare definitivamente i ponti. I meccanismi per farlo vanno da una riduzione delle facilities logistiche ad un’impalcatura proto-normativa tesa a minimizzare i rapporti finanziari da e verso il Paese. Questa politica ambigua lascia trasparire l’idea che l’agenda statunitense non sia rivolta tanto a riaccompagnare l’Iran verso un improbabile tavolo delle trattative, quanto piuttosto ad obbiettivi politico-strategici di tutt’altro spessore. Infatti, l’esasperazione a certi livelli della pressione sull’economia iraniana sta aumentando i dissidi interni, un fattore che, se dovesse raggiungere dimensioni maggiori, giocherebbe tutto a favore di un obiettivo mai troppo celato degli Stati Uniti: il regime change.

   Il quadro interno rimane inevitabilmente legato all’impetuosa politica estera statunitense. Nonostante le ultime indagini dell’AIEA sembrassero confermare l’adempimento degli obblighi di non proliferazione, il regime iraniano ha recentemente lasciato intendere di poter riprendere il proprio programma nucleare. Gli osservatori considerano però questa mossa come una semplice volontà di placare la coercizione americana e di spingere i paesi europei a tenere aperti i flussi economici e commerciali, vitali per evitare un’ancor più drastica fase di regressione.

   Occorre ricordare che la retorica iraniana è sovente caratterizzata da una retorica bidirezionale: da un lato queste minacce appaiono in maggior misura volte a rasserenare le anime più oltranziste dell’establishment e dall’altro sembrano mirate ad intimidire la comunità internazionale fronte all’ipotesi di un totale fallimento dell’accordo. Sebbene il discorso di regime tenti di placare i numerosi movimenti di protesta e sebbene una certa avversità al regime sia da sempre caratterizzante della società iraniana, i dissidi interni si sono intensificati nell’ultimo anno. Anche la classe media rappresentata dai bazar, storicamente un ago della bilancia negli equilibri sociopolitici e nella gestione dell’economia, ha reso noto il proprio malcontento. Questa volta incombe l’ombra di una loro manipolazione “dall’alto” sospinta da alcuni rappresentanti delle élites che valutano negativamente le politiche di Rouhani e che temono un’inversione di tendenza sfavorevole a quei “businessmen” che, negli anni delle sanzioni, avevano agito liberamente nel campo dell’economia sommersa. Ciò che emerge significativamente sono le lotte elitarie intestine al potere, che rischierebbero di marginalizzare le azioni più moderate di Rouhani.

   Un dibattito politico in questo senso può certamente mettere in crisi i meccanismi informali che muovono le redini della Repubblica islamica, come dimostrato dalle discordie riguardo la modifica delle norme di antiriciclaggio, per le quali è stato necessario l’intervento dell’ayatollah Khamenei e l’intercessione dell’ultraconservatore Ahmad Jannati. Altra prova dell’erosione del potere di Rouhani è stato la poco trasparente procedura di impeachment contro due suoi ministri. Pertanto, è scarsamente plausibile che l’attuale governo, imbrigliato dalle sanzioni statunitensi e dalle tensioni interne, riesca a portare avanti la stessa agenda rifomista che ne aveva decretato il successo alle scorse elezioni. All’opposto, rimane ragionevolmente certo che, qualsiasi forza politica sorgerà nel prossimo futuro, l’Iran rimarrà saldamente aggrappato alla questione siriana sia sul campo militare sia sul campo negoziale come nel caso del summit di Teheran con Russia e Turchia. Forte del prestigio derivante dai risultati ottenuti al fianco di questa alleanza, l’Iran rimarrà certamente fedele alla tendenza dell’ultimo periodo di ribadire la propria centralità (o egemonia) nella regione.

Samuele Carlo Ayrton Abrami

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