“Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. Così recitava Il Gattopardo e così si potrebbe riassumere la visione di Joe Biden per il Medio Oriente. Ora che solo l’ufficialità separa il candidato democratico dalla Presidenza degli Stati Uniti, dal quadrante mediorientale emergono reazioni differenti. Accanto alla consueta demarcazione tra alleati e avversari, si fa strada una linea sempre più sfumata tra attori ambigui e scenari imprevedibili. La politica regionale dell’uscente Donald Trump ha senza dubbio mostrato un approccio tattico di assoluta novità, ma non di certo in totale rottura con le precedenti dottrine strategiche. Pertanto, se è vero che Biden sembra proporre un radicale cambio di passo, i dossier rimangono i medesimi: disimpegno militare, minaccia iraniana, “il russo e il turco alla porta”. Lecito invece chiedersi quanto peserà l’eredità dei suoi predecessori e quanto la nuova leadership saprà muoversi in un ordine regionale instabile per ottenere risultati duraturi.
Obama: tutte le vie portano a Biden
I due mandati del suo predecessore democratico, di cui Biden era vicepresidente, avevano affrontato un (dis)ordine mediorientale caratterizzato da una doppia fase transitoria, quella post-11 Settembre e quella successiva alle “primavere arabe”. Entrambe hanno visto vuoti di potere e cambi di regime dar vita a una crescente competizione tra i vari attori regionali, apparentemente divisi in blocchi di alleanze fragili e più realisticamente strumento per guadagnare benefici individuali. Ne è emerso uno scenario quanto mai instabile, ulteriormente aggravato da nuovi conflitti (tra tutti Siria e Libia) che hanno polarizzato le posizioni dominanti e lasciato pericolosi spazi intermedi. Memori della fallimentare war on terror, i decisori americani hanno mostrato una graduale reticenza a intervenire direttamente sino a preferivi la strategia del leading from behind, delegando di fatto a partner ed effimere pedine presenti nell’area. L’intelaiatura costruita da Obama e dal suo segretario di Stato John Kerry mirava in sostanza a definire un nuovo equilibrio, scommettendo molto su un timido reintegro dell’Iran e sull’aiuto dei propri alleati storici. Al contrario, questo graduale disimpegno ha favorito l’assurgere di vari attori non-statali (Daesh su tutti) e di una galassia di milizie proxy marcate da linee settarie, oltre allo scongelamento di vecchi irredentismi (in primis la complessa “questione curda”). Non per ultimi, il ritorno preponderante del rivale russo sulla scena e l’ombra del concorrente cinese hanno rappresentato, e rappresentano, un ulteriore elemento di preoccupazione per gli Stati Uniti.
La discontinua continuità di Trump
La personalizzazione della politica estera da parte di Donald Trump – con una retorica sui generis e una tendenza a scavalcare i canali tradizionali – ha condotto erroneamente a una valutazione semplicistica della sua gestione degli affari esteri degli Stati Uniti. Un bilancio attento trova invece un disegno che non ha totalmente sconfessato la dottrina Obama, ma che ne ha piuttosto adattato gli imperativi strategici di lungo termine sulla base delle contingenze più immediate. In linea con il precedente obiettivo del disimpegno militare americano dal Medio Oriente, la guida repubblicana ne ha proposto una versione rafforzata nella direzione di un non coinvolgimento. La differenza sostanziale è avvenuta invece nella modalità, data la scelta di fortificare i rapporti di vecchia data con Arabia Saudita e Israele con l’obbiettivo di prevenire l’espansionismo di attori ostili nella regione. Per farlo si è scelto, in primo luogo, di abbandonare definitivamente la causa palestinese attraverso atti simbolici come il trasferimento dell’ambasciata USA a Gerusalemme e più concreti come l’Accordo del Secolo (fortemente sbilanciato verso gli israeliani). In secondo luogo, il ritiro dall’accordo sul nucleare iraniano (JCPOA), le copiose commesse di armi americane verso il Golfo e la recente normalizzazione delle relazioni tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein con gli Accordi di Abramo sono frutto di una chiara priorità: creare un fronte anti-Iran ed esercitare una massima pressione su Teheran, ancora percepita come principale fonte di minacce.
Il vero marchio trumpiano. Quale eredità?
Parallelamente allo stretto legame personale con monarchie ed emirati, il disinteresse di Trump per le dinamiche interne ai regimi storicamente più consolidati, quali Egitto e Turchia, ha permesso a Washington di non dover affrontare direttamente alcuni dossier delicati e compiere scelte di campo nei confronti della Fratellanza Musulmana. Esempio lampante è l’ottimo rapporto con Erdoğan, che fa fede alla credenza che l’assertività turca minacci gli interessi della NATO più in senso politico che sostanziale e ancor meno quelli della Casa Bianca. In termini generali, seppur l’eredità di Trump per Biden non sia del tutto differente da quella di Obama, gli ultimi anni hanno visto una crescita esponenziale di instabilità, frammentazione e conflittualità nella regione. Il continuum è rappresentato dall’assenza di una precisa egemonia, che ha stimolato vere e proprie guerre per procura condotte da attori regionali ed esterni (come Turchia, Russia, Iran, Arabia Saudita) con obbiettivi slegati da precisi sistemi di alleanze e lontani da una reale risoluzione delle crisi nell’area.
Biden: l’inesorabile distanza pre e post campagna elettorale
Nonostante la retorica di un ritorno al rispetto del multilateralismo e degli impegni internazionali, è del tutto probabile che con Biden non si assisterà a un’inversione di tendenza radicale, quanto piuttosto ad un differente modus operandi per raggiungere quelli che rimangono gli obbiettivi strategici americani di più ampio raggio. La certezza assoluta è l’ancoraggio a Israele, dove Biden ha già annunciato che manterrà l’ambasciata statunitense a Gerusalemme, limitandosi a un cauto accenno per una soluzione dei due stati sul fronte palestinese. Il fascicolo iraniano rimane un ginepraio che, anche qualora vi fosse reale intenzione a riaprirlo, potrebbe scontrarsi con i mutamenti interni a Teheran verso un ritorno alla linea dura degli ultraconservatori. Se l’obiettivo rimarrà quello di storpiare la capacità nucleare della Repubblica islamica, Biden potrebbe verosimilmente tentare vie diverse dalle sanzioni unilaterali e cercare una sponda su un asse euroatlantico da rinvigorire. Un dato di fatto è invece lo scarso spazio d’azione di Washington sulle crisi regionali in Libia, Siria e Yemen, dove il recupero di una minima influenza potrebbe limitarsi a una maggiore pressione sugli alleati coinvolti. Per farlo sarebbe comunque richiesta una migliore definizione dei sistemi di alleanze, ma da tempo gli Stati Uniti non sembrano avere la capacità (o volontà) politica di giocare da protagonista nei rapporti tra le varie potenze regionali.
Quasi amici
Il rischio è quello di avvantaggiare sia potenze di primordine come la Russia sia l’ascesa di medie-potenze in ascesa come Turchia e Iran, già parzialmente allineate in matrimoni di convenienza come il processo di Astana. Se l’asse Mosca-Teheran non è una novità, sarà invece più critica la gestione dei rapporti con Ankara, la vera mina vagante. Limitarne l’attivismo richiederebbe però l’aiuto di una comune postura europea, ora difficilmente realizzabile. Pertanto, Biden potrebbe destreggiarsi in un “bastone-carota”, reintroducendo critiche all’autoritarismo e rispolverando la causa curda, ma non in maniera sostanziale e certamente non alienando quello che rimane un, seppur ambiguo, prezioso alleato militare sul Bosforo. Una dose di realpolitik porterà piuttosto a tentare di direzionare il dinamismo turco e sfruttarne la spregiudicatezza negli scenari in cui Washington può trarre vantaggi, anche senza un proprio coinvolgimento diretto.
Quo vadis?
In linea di massima, a livello strategico, Biden non si discosterà dalla progressiva marginalizzazione del Medio Oriente, punto oramai consolidatosi nell’agenda dell’establishment americano. È pertanto più realistico attendersi un equilibrismo che manterrà vivi i pilastri fondanti e che tenterà minime aperture e mediazioni, seppur distanti dall’essere rivoluzionarie nel senso di una nuova pax americana. Sarà piuttosto la tendenza della politica estera dell’ultimo decennio a guidare la nuova amministrazione democratica, la quale non potrà tuttavia esimersi dal conferire una propria interpretazione all’idea che “se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. Come e in che direzione dipenderà dalla capacità statunitense di evitare che la nuova attitudine si traduca in una condotta divisiva e meramente reattiva, ancor più deleteria per un Medio Oriente sempre più multipolare e dove ogni attore reclama una propria voce.
Samuele C.A. Abrami