Oltre ai nuovi venti di guerra tra Stati Uniti e Russia, l’imprevedibile caos del conflitto siriano ha riportato inaspettatamente alla luce le storiche ostilità tra Israele ed Hezbollah. Il primo mira a proseguire la propria strategia di contenimento delle minacce, mentre il secondo è sempre più spinto dall’Iran verso la conquista di un rilevante spazio di influenza in Siria. La penetrazione di Hezbollah nel teatro di guerra ha indotto Israele ad elevare la sicurezza interna e ad assumere una politica estera più assertiva. Sull’onda di vicendevoli screzi e operazioni preventive, torna quindi il pericolo di un testa a testa diretto. Questa volta sul campo siriano.
Negli ultimi tempi, la retorica incendiaria volta all’ostilità è tornata a caratterizzare i discorsi politici dei leader di Iran ed Hezbollah da un lato e di Israele dall’altro. È chiaro che i toni sprezzanti provenienti da ambo i lati non possano più essere liquidati come una mera prosecuzione della tradizionale diatriba arabo-sionista, poiché sempre maggiori elementi evidenziano come questa volta ad inasprire i rapporti tra questi attori siano i loro intenti geopolitici. Per quanto fondate su modi operandi estremamente diversi, – con l’Iran più incline a mobilitare l’esercito ed Israele più propenso all’utilizzo dell’intelligence – le rispettive mosse strategiche nelle zone sensibili hanno finito per concretizzarsi in episodi che potrebbero spianare la strada ad un’aperta conflittualità. Ne è una dimostrazione il fatto che lo scorso febbraio un F16 israeliano di ritorno dalla Siria sia stato abbattuto dalla contraerea di Damasco, proprio dopo che un elicottero israeliano aveva colpito un drone iraniano sconfinato nel suo spazio aereo. Che sia da valutarsi come un’azione intimidatoria piuttosto che come una diretta sfida ad Israele, questo evento preoccupa Tel Aviv in due direzioni: Hezbollah sta andando rinvigorendo il proprio apparato militare e l’Iran è in grado di violare lo spazio aereo del nemico, anche attraverso la locazione di guerriglieri sulle zone nevralgiche.
Storicamente sono sempre stati i confini settentrionale (con il Libano) e meridionale (con l’Egitto) a mantenere viva in Israele un’elevata apprensione per la sicurezza interna, sia a causa dei movimenti insurrezionali e panislamisti presenti in tali aree sia per gli aspri rapporti con le entità statali dei vicini arabi. Al contrario, la striscia di terra condivisa con la Siria – che va dal monte Hermon/Jabal al-Sheikh nel nord sino al fiume Yarmouk nel sud – è stata a lungo la frontiera meno calda e problematica per le milizie israeliane, complice la creazione di una buffer zone estesa su questi 75 km. Tale zona cuscinetto, tutt’ora controllata e monitorata dagli osservatori dell’UNDOF (United Nations Disengagement Observer Force), è nata in seguito all’Accordo di disimpegno che pose fine alla guerra dello Yom Kippur del 1973. Dai tempi dell’armistizio, quest’area ha di fatto rappresentato una zona franca tra le alture del Golan e la Siria, nonostante l’occupazione di Israele si mantenga in pianta stabile in uno spazio che sarebbe formalmente siriano.
Il dilemma della sicurezza per Israele è sorto in concomitanza con l’acutizzarsi della crisi in Siria nel 2011 che, oltre ad aver trascinato sul campo le potenze esterne, ha portato ad una costante proliferazione e radicalizzazione di numerosi gruppi islamisti. Nell’ottica di Tel Aviv, né una vittoria dell’asse Mosca-Damasco-Teheran con conseguente riaffermazione del potere da parte di Assad, né tantomeno un indebolimento del regime a favore delle forze jihadiste rappresentano opzioni auspicabili per la stabilità della regione. Per questa ragione, il governo di Netanyahu ha esplicitamente promosso una politica vicina al disengagement e volta alla limitazione dei danni, attraverso un’intensificazione dei controlli lungo il confine ed operazioni preventive contro i focolai estremisti. L’ingresso di Hezbollah nel teatro siriano al fianco di Assad ha però indotto Israele a mutare quella che inizialmente era stata definita come una “neutralità interessata” in un policymaking dai presupposti più aggressivi. Il movimento sciita libanese, che già aveva fronteggiato lo Stato ebraico in due guerre (1982 e 2006), ha dato prova di possedere capacità militari sorprendenti nella battaglia di al-Qusayr del maggio 2013, sconfiggendo i ribelli e conquistando un checkpoint decisivo per la vicinanza con il Libano. La sua partecipazione attiva nel conflitto ha ingrossato notevolmente l’apparato bellico che, unito a quello degli alleati russi ed iraniani, ha ribaltato gli equilibri della situazione siriana a discapito degli Stati Uniti e delle fazioni inimiche al regime di Assad.
La sfera di influenza di Iran ed Hezbollah si è allargata a macchia d’olio grazie soprattutto allo spalleggiamento di Mosca: nel caso in cui il regime alleato di Assad dovesse tornare a controllare le aree meridionali del Paese, le truppe della coalizione si avvicinerebbero pericolosamente al confine israeliano. Questo spiega il graduale coinvolgimento di Israele nel conflitto, sostanziatosi in bombardamenti sul territorio siriano contro veicoli e postazioni militari di Hezbollah. Il governo di Tel Aviv, inoltre, valuta da tempo una proposta relativa all’estensione della zona cuscinetto per altri 20 km, al fine di prevenire la costruzione di tunnel o basi di attacco che costituirebbero una grave minaccia. Per quanto riguarda lo spazio aereo, la Russia domina incontrastata da quando, dopo l’abbattimento di un suo jet per mano turca nel 2015, ha installato in Siria sistemi missilistici di difesa antiaerea (S-300 e S-400). Nonostante non si siano ancora verificate collisioni con le operazioni israeliane e sia stato aperto un canale di comunicazione aerea, il dispiegamento militare russo ha ridotto notevolmente il margine d’azione di Israele.
L’obiettivo israeliano rimane quello di impedire che Hezbollah arrivi effettivamente a costruire basi militari in Siria da dove potrebbe colpire oltre confine, evitando così ogni tipo di ripercussione sulla propria base libanese. La leadership di Israele è consapevole che di fronte alla comunità internazionale sarebbe arduo motivare eventuali bombardamenti sul Libano per rispondere ad attacchi provenienti dalla Siria e che, data l’incertezza riguardo la capacità della Russia di controllare le intenzioni iraniane, rimane vitale la conservazione dell’attuale deterrenza. Per farlo, Israele ha stilato una serie di linee rosse finalizzate ad evitare che tale minaccia arrivi ad interessare seriamente i propri confini. In questi punti si fa menzione del divieto per Teheran di costruire basi durature ed impianti di fabbricazione di missili sul territorio siriano, oltre che di un’esortazione esplicita alle altre potenze a collaborare affinché l’Iran ritiri le sue pedine. Si spiegano così sia l’abbattimento di una base in costruzione nei pressi di Palmira sia i saltuari bersagliamenti su Mezzeh.
La volontà comune tra Tel Aviv e Mosca sarebbe quella di eludere la preoccupante prospettiva che milizie e guerriglieri difficilmente controllabili possano rimanere in Siria e destabilizzare il paese anche una volta raggiunta una situazione di pace relativa. L’attuale indeterminatezza porta a considerare due principali evoluzioni: uno scontro diretto tra Hezbollah (quindi Iran) ed Israele in territorio siriano, oppure un’enforcement delle operazioni preventive di Israele fino a bombardamenti in Libano, con la possibilità di un’escalation che riaccenderebbe scenari di guerra probabilmente peggiori di quelli del 2006. L’opinione pubblica libanese già si interroga su quanto un cambio di rotta verso l’esterno possa sfavorire in termini politici un movimento che, nato come centro della resistenza contro Israele, sta incessantemente perseguendo una strada tanto espansiva quanto costosa in termini di vita e di denaro.
La certezza è che, dopo la caduta dello Stato Islamico, tutto il Medio Oriente vada attraversando una nuova fase in cui soprattutto gli attori regionali stanno approfittando dell’instabilità per allargare le proprie sfere di influenza. L’unico attore che pare attualmente avere un’agenda politica più conservativa è Israele, ma se le azioni dei suoi vicini continueranno a minacciare gli equilibri dell’intera area, sarà difficile anche per quest’ultimo non intraprendere azioni coercitive, lasciando che l’Iran possa prevaricare in un conflitto di tali dimensioni.