La funzione della componente culturale nel rapporto con una lingua straniera è mutata nel XX sec., evolvendosi in maniera differenziale. Questo perché il contesto culturale è fondamentale per lo studio di una lingua nella società complessa e senza culturizzazione non vi sono socializzazione ed autopromozione. L’unità minima della cultura è il modello culturale, cioè la risposta a un problema e, nella società contemporanea, i modelli culturali variano rapidamente e si contagiano imprevedibilmente. Questo elaborato si propone di analizzare una nuova prospettiva secondo cui proprio tale competenza comunicativa può diventare strumento di osservazione per analizzare, a partire dal contesto socio-pragmatico della comunicazione e della performance comunicativa stessa, la condizione psicologica degli adolescenti nei contesti scolastici e di formazione obbligatoria.
Lo stereotipo dell’appartenenza culturale
Il bambino e l’adolescente di origine straniera corre il rischio di essere identificato unicamente con la propria appartenenza culturale, dimenticando che, invece, vive e si forma all’interno di più contesti sociali e, quindi, di una molteplicità di subculture. Ogni persona è dotata di un’identità composita, complessa, unica è insostituibile.
Le seconde generazioni di immigrati, per esempio, a differenza dei loro genitori, appartengono a culture in movimento, aperte, che superano l’idea di cultura di origine considerata come un contenitore omogeneo o una realtà esterna cristallizzata. Al contrario, in ciascuno è rilevabile una pluriculturalità e un’interculturalità interiore, che nascono dal sentirsi possessori sia di un’identità personale unica e irripetibile, fatta di ricordi e di valori propri, sia di un’identità plurima o meticcia composta da molteplici appartenenze e riferimenti. Non bisogna sottovalutare, nemmeno in contesto scolastico, come entrambe risultano preziose per la plasticità mentale e la capacità di adattamento.
È importante, quindi, nell’ambito della progettazione interculturale, tenere presente i concetti di identità al plurale e di intercultura, proprio per evitare di realizzare percorsi che presentino riti e usanze in modo folklorico e stereotipato, ripresi da tradizioni culturali che non appartengono più ai minori di origine straniera, specie se sono nati o arrivati molto piccoli nel paese di accoglienza. Così, i progetti interculturali non saranno centrati su idee di cultura definite a tavolino, rappresentate attraverso immagini e oggetti che appartengono solo all’immaginario esotico e non alla quotidianità della cultura presentata.
Un altro aspetto che la riflessione interculturale deve considerare nel momento della programmazione riguarda i contenuti disciplinari e i relativi apprendimenti. Per superare il punto di vista eurocentrico, è spesso sostenuta da molti autori la necessità di aprire i contenuti delle materie scolastiche ai contributi che ogni cultura ha dato in qualsiasi campo del sapere e dell’evoluzione umana. Affrontare i contenuti disciplinari da prospettive diverse può concorre al formarsi di concetti di eguaglianza e di giustizia sociale nei bambini, concetti ritenuti necessari in una realtà soggetta a profondi cambiamenti sociali, culturali ed economici.
Per questo deve cambiare la prospettiva dalla quale è analizzata la storia, la geografia e l‘arte in generale. Questo cambiamento riguarda non solo l’ambito delle conoscenze disciplinari, ma anche il versante metodologico e relazionale, poiché il successo scolastico è raggiunto sia grazie all’acquisizione di competenze cognitive, ma anche attraverso la creazione di un buon clima di classe, di rapporti sociali positivi tra coetanei sia nel contesto educativo che in quello extrascolastico. Per tali motivi diventa centrale la riflessione sulle metodologie cooperative, come importante strumento da utilizzare non solo per il raggiungimento delle competenze cognitive, ma anche per la creazione di un clima positivo nel gruppo caratterizzato da rispetto reciproco, ascolto e dialogo. Le metodologie cooperative permettono, inoltre, di valorizzare il vissuto e le capacità di ogni bambino, rendendolo più consapevole del proprio processo formativo. Infatti, la questione dell’integrazione sociale e culturale dei minori di origine straniera non si risolve unicamente con la riuscita scolastica, ma essa può essere considerata come un tassello importante per fornire risposte al fenomeno migratorio, al confronto e al conflitto culturale.
La costruzione dell’identità nei processi educativi
Una volta inseriti nei differenti contesti di accoglienza (scuola, gruppi amicali e sportivi…), ai bambini e agli adolescenti è richiesto di appropriarsi e di padroneggiare i linguaggi e i riferimenti simbolici della cultura di accoglienza, ma allo stesso tempo di mantenere e onorare i legami, i valori appartenenti alle origini culturali della famiglia. I minori sono impegnati nello sforzo continuo di dover conciliare, in loro stessi, messaggi e richieste diverse, a volte contraddittorie, provenienti sia dalla famiglia sia dalla scuola e dalla società. Per permettere loro di crescere all’interno di questo difficile processo i genitori devono consentire al bambino di essere diverso da loro, essere in parte straniero. Devono permettere al figlio di crescere meno attaccato alle origini e di assomigliare di più ai suoi coetanei. Dall’altro la scuola, le agenzie formative, la comunità ospitante ed in particolare i coetanei devono riuscire a valorizzare e legittimare le appartenenze, i saperi, le competenze linguistico-culturali dei minori di origine straniera, considerandole come un’importante ricchezza sia per il bambino, sia per il gruppo e la comunità in cui è inserito. Se gli insegnanti e gli educatori si pongono in quest’ottica allora è possibile, effettivamente, creare delle connessioni tra il mondo della casa e quello della scuola, a partire dalla ferma consapevolezza che il biculturalismo e il bilinguismo sono aspetti favorevoli e arricchenti per l’individuo stesso e per gli altri. Le chiusure, a dispetto della valorizzazione di tale situazione di peculiarità, invece, possono trasformarsi in emarginazione e deprivazione, che conducono il bambino e l’adolescente o ad un’assimilazione obbligata, attuata attraverso la negazione della propria storia individuale ed origine familiari e culturali, o alla separazione e chiusura nel proprio gruppo di appartenenza, come espressione di un rifiuto verso l’integrazione.
Infatti, la costruzione dell’identità, specie nei bambini in età scolare, è caratterizzata da un processo di integrazione tra la dimensione personale e la dimensione culturale che, a volte, possono entrare in conflitto. La dimensione personale costruisce i valori e gli schemi di riferimento a partire dalle relazioni amicali e sociali esterne alla famiglia. La seconda, quella culturale, riceve continui richiami al rispetto delle norme familiari e parentali. In questa dinamica interna il bambino di origine straniera può sentire delle forti contraddizioni tra i valori presenti nella famiglia e quelli esterni, propri dei rapporti amicali e affettivi e per questo può sentirsi costretto in ruoli scelti per lui dal senso comune.
Possono essere individuate tre dimensioni che caratterizzano la costruzione dell’identità del bambino migrante e che sono sottoposte al cambiamento in seguito all’esperienza della migrazione. Esse riguardano: lo spazio geografico, lo spazio del corpo, lo spazio linguistico.
Lo spazio geografico è il cambiamento più evidente collegato alla migrazione, riguarda lo spostamento fisico dal paese di origine a quello di accoglienza, uno spostamento spesso vissuto come una rottura, una separazione simbolica. Anche se il bambino è nato nel paese d’accoglienza, può vivere ugualmente questi sentimenti di perdita e di distacco spesso trasmessi dalla madre attraverso il suo mondo immaginario, i suoi sogni in cui il passato è vissuto come un paradiso perduto ed il presente come minaccioso e problematico, in cui prevale l’isolamento, l’incomprensione, la difficoltà di relazione con gli autoctoni, che può sfociare in episodi di discriminazione e di razzismo. La percezione negativa dell’esterno da parte dei genitori può generare nel bambino delle inibizioni nella conoscenza degli spazi extrafamiliari, nell’ampliamento del proprio campo cognitivo e, persino, nell’acquisire nuovi saperi trasmessi dalla scuola.
L’elaborazione del cambiamento dello spazio geografico, da parte del bambino migrante, dipenderà molto da come riuscirà a costruirsi, a percepirsi nello spazio esterno anche grazie al luogo simbolico in cui è stato collocato dai propri genitori. Il linguaggio non verbale è strettamente collegato a questa dimensione e, osservandolo, si può rilevare quanto sia complesso e differente nelle varie culture. Il bambino migrante apprende nella famiglia un certo modo di concepire e di rappresentarsi il suo corpo, un modo di parlare, di mangiare, di vivere in spazi suddivisi all’interno della casa, interiorizza certi ritmi e ritualità nella conversazione, nel modo di riunirsi, di accogliere gli estranei.
Nei luoghi esterni alla casa il bambino migrante trova altre modalità di espressione della corporeità, accompagnati da linguaggi non verbali che possono essere vissuti come aggressivi, estranei, ambivalenti o imbarazzanti. È proprio all’interno di questa dimensione che il bambino può cogliere maggiormente la propria differenza riguardo all’identità fisica, al colore della pelle, la forma degli occhi e dei capelli.
L’ultima dimensione soggetta a cambiamenti è quella linguistica, che include la comunicazione non verbale e l’aspetto culturale della lingua. La lingua familiare mantiene la funzione affettiva, è la lingua della casa, della famiglia, dell’intimità, ma viene utilizzata con scarsi interlocutori e su argomenti limitati e prevedibili. Essa tende, quindi, ad impoverirsi, a ridursi, a restare sempre legata al contesto comunicativo. La seconda lingua, invece, diventa strumento, funzionale e potente, ma essa è priva dei riferimenti affettivi fondamentali, degli accenni impliciti alla complicità con la madre e alla mitologia infantile. L’aspetto linguistico, rispetto ai precedenti, è quello più indagato poiché ritenuto l’ostacolo principale all’integrazione ed è, spesso, considerato come la causa principale dell’insuccesso scolastico. I bambini migranti, in genere, apprendono velocemente la nuova lingua e sono utilizzati come traduttori linguistici tra gli operatori dei servizi, gli insegnanti e i loro stessi genitori che non padroneggiano la lingua con altrettanta facilità. In seguito a ciò possono verificarsi dei cambiamenti nelle relazioni interne alla famiglia, poiché i bambini, troppo precocemente, partecipano a conversazioni e decisioni che dovrebbero essere condivise soltanto tra adulti. Questo spinge a ribadire che le possibili difficoltà di apprendimento dei minori di origine straniera, sono da ricercare non soltanto nel loro bilinguismo, ma nella conflittualità duratura tra due lingue e due culture, vissuta quotidianamente sia nel contesto familiare sia in quello scolastico.
Considerando queste triplici peculiarità, il bambino migrante può incontrare difficoltà ulteriori se la scuola le ignora, imponendogli gli stessi parametri linguistici degli autoctoni e considerando una mancanza di capacità cognitive l’apprendimento insufficiente della seconda lingua. Si creano, in questo modo, le condizioni per l’insuccesso scolastico frequente e duraturo.
In realtà l’apprendimento di una seconda lingua migliora le capacità metalinguistiche, perché favorisce la conoscenza della struttura e delle funzioni della lingua e la comprensione del senso delle frasi e metacognitive, ampliando la competenza nell’analisi e rielaborazione dei dati e delle strategie cognitive, formando le persone al confronto e al dialogo.
Il ruolo dello psicoterapeuta scolastico
In conclusione, poiché il fenomeno dell’immigrazione è in costante crescita negli ultimi anni, esso è strutturalmente destinato a catalizzare quesiti e a richiedere cambiamenti e adattamento, da parte sia degli immigrati sia del Paese ospitante. Tale fenomeno presenta di conseguenza implicazioni di vario tipo: di ordine pubblico, culturali, economiche, e comporta cambiamenti rilevanti da un punto di vista sociale e psicologico. Gli studi in psicologia clinica hanno infatti messo in evidenza che quando persone provenienti da contesti etnici, culturali, sociali ecc. vengono a contatto si attiva una serie di meccanismi di difesa quali intolleranza, paura, ansia, aggressività e così via. Questi meccanismi difensivi appaiono funzionali ad una salvaguardia in senso adattativo e vengono attivati sia negli immigrati sia nella popolazione ospitante al fine di difendersi da stimoli che, in un certo senso, vengono ritenuti pericolosi poiché percepiti come diversi e capaci di modificare gli equilibri esistenti. Uno dei concetti cardine intorno al quale ruotano l’immigrazione e le problematiche ad essa legate è quello di integrazione, considerata come un percorso che coinvolge l’individuo immigrato da una parte e la società ospitante dall’altra. Tale percorso rappresenta un fenomeno dinamico e pluridimensionale comprendente tutte le modalità attraverso le quali l’immigrato può essere integrato nel Paese ospitante; in alcuni casi il fenomeno dell’immigrazione può acquisire un adattamento nel tempo, in altri casi può dar luogo a problemi sociali, proprio a causa dello scontro fra razze e culture diverse.
L’intervento psicologico risulta pertanto di enorme importanza nei vari contesti sociali, primo fra tutti la scuola, che rappresenta il terreno di incontro per eccellenza fra individui provenienti da diverse realtà etniche, sociali, culturali e politiche. Lo psicoterapeuta può intervenire all’interno del contesto scolastico informando e sensibilizzando gli studenti sul fenomeno dell’immigrazione, gestendo un confronto interculturale nell’ambito del quale studenti, genitori e insegnanti possano confrontarsi e condividere le proprie opinioni ed emozioni. Lo psicologo svolge in tal senso un compito importante nel processo di integrazione dei cittadini immigrati, in quanto crea una mediazione fra universi culturalmente diversi e fornisce gli strumenti opportuni per affrontare in modo costruttivo l’esperienza dell’altro. Gli psicologi hanno, inoltre, il compito di facilitare l’incontro fra soggetti immigrati e Paese ospitante allo scopo di produrre un processo di integrazione.
Martina Zuccolo
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