Italia e Turchia. Tra ambiguità e mea culpa

I più recenti eventi che hanno visto la cooperazione italo-turca in Somalia per la liberazione di Silvia Romano hanno risuonato tanto nei media quanto nell’opinione pubblica come un vaso di Pandora scoperchiato all’improvviso. Eppure, le relazioni tra Roma e Ankara sono da tempo connotate da peculiarità che appaiono certamente ambigue – se non divergenti – qualora le si interpreti con la grande lente internazionale. Non deve quindi sorprendere che laddove l’Italia giochi il suo classico ruolo di mediatore e subisca la mancanza di un’agenda estera europea, la Turchia abbia gioco facile nel perseguire i propri obbiettivi strategici. Allo stesso tempo, però, le relazioni bilaterali continuano a mantenere un profilo tutt’altro che conflittuale, lasciando quindi aperti interrogativi più profondi sul loro futuro così come su quello delle calde questioni di mutuo interesse.


   La Somalia è fuori dalle rotte italiane già dal crollo del regime di Barre 1991, seguito da un’anarchia militare e da una missione ONU fallimentare che hanno reso il terreno fertile per gruppi terroristici di matrice islamica e per l’ingresso di nuovi attori. Lo scenario avrebbe pertanto richiesto un impegno meno cooperativo e più assertivo con il quale l’Italia avrebbe arrischiato la propria immagine internazionale già pesante di un passato coloniale. Chi invece ha potuto penetrare più in sordina nel Corno d’Africa è la Turchia. Contrariamente a una lettura del neottomanesimo limitata alla chiave imperialistica, la dottrina estera delineata da Davutoğlu ha dapprima giocato la carta del soft power culturale e della “diplomazia umanitaria” per poi stabilizzare la propria presenza con investimenti economici e militari. Erdoğan ha guadagnato credito a tal punto da “esser stato invitato” a cercare petrolio dal governo di Mogadiscio. È sempre la Turchia che negli ultimi mesi ha portato assenza nell’affrontare la drammatica invasione di locuste e che ha inviato in Somalia materiale sanitario per far fronte all’emergenza Covid-19. Risulterebbe quindi scorretto in tal caso vedere l’azione della Turchia sullo scenario come un torto diretto all’alleato italiano, dal momento che all’abbandono del secondo è sì corrisposto un ingresso deciso del primo – ma senza una diretta correlazione causa-effetto. Sono piuttosto le variabili strutturali interne ed esterne ad aver legato le mani all’Italia da diversi anni.

   Lo scenario libico è invece il più preoccupante dal momento che l’Italia fatica a districarsi nel balletto di alleanze tra i suoi alleati nel Vecchio continente e quelli mediterranei, tanto da aver scelto una posizione di intermezzo nell’opzione tra Al-Sarraj o Haftar che fornisce poche certezze. Roma ha seguito la strada diplomatica dalla Conferenza di Palermo all’ultimo incontro di Berlino, aprendosi alla sponda di Egitto, Russia, Emirati e Francia al fianco di Haftar. Questo però al prezzo di rischiare di perdere la propria credibilità con quello che appare un tacito passo indietro – se non l’ammissione di un fallimento strategico – dall’inziale supporto al presidente Al-Sarraj avvallato dall’ ONU. Il crescente attivismo turco, anche in questo caso, ha approfittato delle reticenze europee (e ancor più degli alleati atlantici) a scendere in campo a fianco del Governo di Accordo Nazionale inviando armi e trasferendovi le milizie mercenarie già usate in Siria. L’interesse di Ankara nell’evitare il collasso del governo di Tripoli non si inserisce tanto nel contesto delle rivalità egemoniche regionali, quanto piuttosto negli appetiti energetici che l’accordo con Al-Sarraj potrebbe saziare al termine del conflitto.

   La strada è in salita perché la partita è militare. Contrariamente alle illusioni iniziali, purtroppo, il disegno di Haftar esclude disarmo e pace. Nonostante comporti un costo in vite umane inqualificabile, in realtà, il conflitto libico è poco nelle mani dei libici e tanto dipende dalla forza del sostegno degli attori esterni. L’unico rimedio a portata immediata dell’Italia è rappresentato da un’eventuale rinegoziazione del Memorandum of Understanding che richiederebbe in prima battuta un riavvicinamento deciso al Governo di Unità Nazionale – al momento più propenso al dialogo rispetto alla controparte – per acquisire peso diplomatico in un eventuale secondo approccio con Haftar. In questo senso, l’azione turca e italiana rimarrebbero antitetiche nelle modalità d’azione ma avrebbero una pedina comune da muovere verso i propri scopi ultimi. Il bilanciamento della nuova operazione navale europea EUNAVFOR MED “Irini” sarà l’altro strumento da maneggiare con cura per provare a dare un indirizzo comunitario votato al bene comune: la stabilità.

   È proprio nelle acque del Mediterraneo Orientale che le esplorazioni e i volteggi della Turchia contrastano con gli interessi italiani. La tradizionale prudenza potrebbe però paradossalmente favorire Roma in questa fase in cui la spartizione delle Zone Economiche Esclusive ha assunto toni polarizzanti. “Sostenere a oltranza, più della stessa Unione europea, le mire di Grecia e Cipro non ci avvantaggia”, sottolinea l’ufficiale Fabio Caffio. Così come sarebbe un azzardo prendere una posizione netta nei confronti dell’iniziativa anti-turca di Grecia, Cipro, Egitto, Francia e Emirati Arabi Uniti, da cui anche Israele si è defilato. In sostanza, i nostri interessi geopolitici ruotano attorno alla prospettiva di una Libia unificata e pacificata. Un riavvicinamento alla Turchia va comunque valutato positivamente nella misura in cui l’Italia sappia da sola far valere la superiorità del proprio peso specifico su Ankara nella questione energetica. Tra consensi interni altalenanti e un’economia in bilico, Erdoğan necessita di azioni repentine e grandi compromessi col rischio di errori di calcolo. L’ italiana ENI è invece un consolidato protagonista che necessita unicamente di tornare ad esser caricata del suo naturale significato strategico, magari partendo dal progetto Eastmed che porterebbe gas in Italia proprio dalla Turchia.

   Le relazioni bilaterali, non va dimenticato, hanno numeri importanti e necessitano di rimanere vive anche per il quadro economico ora più che mai necessario per l’export italiano e l’internazionalizzazione delle aziende strategiche. L’Italia è il quinto partner commerciale della Turchia, con 20 miliardi di interscambio totale e 1.418 realtà italiane presenti sul territorio – tra cui FCA, Leonardo, Pirelli, Ferrero, Salini Impregilo. La voce più consistente è rappresentata dall’industria automobilistica, seguita dalla metallurgia e dal tessile e dal settore agroalimentare. Se è vero in generale che l’Italia fatichi a far la voce grossa, sarebbe un errore farlo tout court nei confronti della Turchia e privarsi di un partner con cui è più conveniente continuare dialogare anziché rompere il canale privilegiato e rischiare pesanti ripercussioni di lungo termine. Mantener saldo lo strumento economico è sempre utile nell’ottica di dispute più ampie.

   In conclusione, la politica estera italiana va come sempre esaminata con la giusta dose di pragmatismo.

   È quindi lecito e corretto il dibattito su un eventuale debito verso Erdoğan dopo la liberazione di Silvia Romano, ma il giudizio non può prescindere da un mea culpa più profondo: la Turchia rappresenta solo uno dei tanti speculatori su un debito che la politica estera italiana nutre in primis verso se stessa e le vicende in Somalia altro non sono che una cartina tornasole di problematiche strutturali mai realmente affrontate. Nel quadro mediterraneo in costante evoluzione, mantenere la “barra al centro” con il vicinato è ora l’unico imperativo realistico per l’Italia, quantomeno per continuare a difendere un profilo internazionale di moderazione e affidabilità. Certo, farlo con paesi sfuggenti come la Turchia richiede la stesura a monte di un’agenda estera con precise priorità e la definizione di propri asset strategici per materializzarla. Solo in tal caso, forte di espedienti concreti su cui far leva, sarebbe possibile per l’Italia tornare ad avere un Mare Nostrum e ridefinire la propria postura, anche verso l’incauto alleato turco. Il fatalismo non deve prevalere e un più alto livello di minacce non deve tradursi in disinteresse né tantomeno in rottura, ma nell’elaborazione di un’interdipendenza che disincentivi la non-cooperazione.

Samuele Abrami

 

Bibliografia principale:

Alessandro Marrone, Italian Military Operations: Coping with Rising Threats and Declining US Leadership, IAI, Marzo 2020. https://www.iai.it/en/pubblicazioni/italian-military-operations-coping-rising-threats-and-declining-us-leadership

https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/italys-libyan-conundrum-risks-short-term-thinking-24469

https://www.geopolitica.info/gas-e-turchia-nuove-tensioni-nel-mediterraneo-orientale/

https://www.affarinternazionali.it/2020/01/litalia-di-fronte-dinamiche-marittime-mediterraneo/

https://www.cespi.it/sites/default/files/osservatori/allegati/apr._2_marsili_italia-turchia.pdf

Bacik, G & Afacan, I 2013, ‘Turkey Discovers Sub-Saharan Africa: e Criti- cal Role of Agents in the Construction of Turkish Foreign-Policy Discourse’, Turkish Studies, vol. 14, no. 3, pp. 483-502.

 

 

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