Tra interessi di attori esterni, divisioni interne e un paese in bancarotta, le sfide che attendono la Siria sono enormi e aprono a nuovi interrogativi per il futuro del paese. La fine del regime siriano di Assad porterà dietro sé strascichi duraturi, come nel caso della Libia? Chi riempirà il vuoto di potere lasciato da Assad nell’area?
La caduta del regime di Bashar al-Assad se da un lato segna un momento storico per il popolo siriano, dall’altro apre a scenari inediti non solo per il paese ma anche per l’intero quadrante mediorientale. Se nella difficile fase di transizione, dopo che il conflitto ha causato 7,2 milioni di siriani sfollati interni e 4,9 milioni di rifugiati siriani registrati nella regione, gli equilibri di potere saranno dettati in gran parte dagli avanzamenti sul campo, l’interrogativo sarà rappresentato dalle reali capacità e dalla volontà di Hayat Tahrir al-Sham, letteralmente “Movimento di liberazione della Siria” guidato da Abu Mohammed Al-Jolani, organizzazione di stampo salafita-jihadista nata nel contesto della guerra civile siriana nel 2011 con il nome di Jabhat al-Nusra e affiliata ad al-Qa’ida in Siria, di guidare la transizione politica per la costruzione di una Siria inclusiva in cui i diritti di tutte le sue componenti etniche e religiose vengano garantiti.
Russia e Iran inermi dinanzi alla caduta di Assad.
L’avanzata di HTS e il suo successo è in parte conseguenza di due conflitti: quello della Russia in Ucraina e quello di Israele in Libano. Per l’immagine di Mosca, dove Assad e la sua famiglia si sono rifugiati, il crollo del regime di Damasco, suo principale alleato in Medio Oriente fin dai tempi dell’Unione sovietica, rappresenta un duro colpo. L’Iran, finanziatore del cosiddetto “Asse della resistenza” che va dallo Yemen alla Palestina, aveva pubblicamente promesso di sostenere il regime, ma indebolito da decenni di sanzioni e da un anno di guerra contro Israele non ha potuto fare molto di più che assistere alla sua caduta. Il regime Assad, che si era “salvato” nel 2015 grazie all’intervento della Russia, dell’Iran e di Hezbollah, si è sgretolato sotto i colpi dell’avanzata ribelle senza nemmeno combattere. La Repubblica islamica è ora costretta a prendere atto della chiusura della sua rotta di approvvigionamento di armi attraverso la Siria.
Il ruolo della Turchia.
Chi non ha invece fatto mistero di aver parteggiato per le fazioni ribelli è la Turchia che ha svolto un ruolo fondamentale nell’operazione che ha detronizzato Assad. Il presidente turco Recep Tayyep Erdogan non ha mai abbandonato l’opposizione siriana e nel corso della lunga guerra civile siriana la Turchia ha accolto più di 3 milioni di rifugiati, ha provveduto con armi e addestramento ai gruppi ribelli. Resta ora da vedere se e come Ankara capitalizzerà questa inedita “posizione dominante”.
Quali incognite sul futuro della Siria?
Sul futuro della Siria pesano molte incognite.
In primis restano da sciogliere diversi nodi a livello territoriale. La zona costiera, dove si concentra buona parte della popolazione alawita (che sosteneva Assad) e che ospita le basi russe di Tartus e Latakia, non è ancora sotto il controllo degli insorti: è probabile che quest’area finisca per esserne oggetto di negoziati tra Iran, Turchia e Russia.
Secondariamente, il fronte ribelle non appare omogeneo e per questo motivo le varie sigle hanno effettuato una vera e propria corsa per stabilire chi avrebbe preso la capitale per primo. Le prossime settimane saranno così cruciali per capire il destino del Paese. L’esempio dell’Iraq post-Saddam, dove all’improvviso, insieme all’ex dittatore deposto, tutto l’apparato statale e burocratico del partito Ba’ath venne letteralmente escluso da qualsiasi ruolo istituzionale, contribuendo al collasso delle istituzioni e al diffondersi del caos e delle violenze, dimostra quanto sia delicato il processo di smantellamento di un regime dittatoriale. Al-Jolani dovrà così districarsi nel tenere insieme le varie anime di un Paese storicamente variegato e non omogeneo: anche le forze armate siriane, che conterebbero circa 170.000 uomini, dovranno necessariamente essere integrate nelle nuove strutture della difesa, altrimenti il rischio sarebbe quello di avere un esercito “nemico” dentro casa. Non è un caso che lo stesso Jolani sarebbe intenzionato a concentrarsi sulla riorganizzazione delle forze armate ed assumerne il comando.
Per quanto riguarda, invece, le altre “anime” che compongono il Paese siriano, sicuramente il rebus più difficile da risolvere è quello dei curdi. In questo caso è necessario menzionare nuovamente Erdogan: il leader turco si propone il contenimento delle forze curde dell’YPG, alleate del PKK, ed evitare così che si possa formare un proto-Stato curdo nel Nord-Est della Siria, percepito dalla Turchia come un avamposto per lo stesso PKK in funzione anti-turca. Anche per questo motivo la Turchia è presente militarmente in Siria e occupa una striscia di territorio nel Nord.
Anche se Al-Jolani sta già lavorando alla formazione di un nuovo governo di transizione con a capo Mohammed al-Bashir (già alla guida della provincia di Idlib), nei confronti del quale rimane da capire quali territori controllerà e che tipo di potere eserciterà, il rischio di frammentazione è concreto, così come quello di nuovi scontri, a partire dal possibile coinvolgimento dei curdi. Anche Russia, che ha un interesse strategico primario nelle basi sul Mediterraneo a Tartus, e Stati Uniti (per i quali HTS è classificato come organizzazione terroristica) sotto la nuova presidenza di Donald Trump dovranno prendere posizione, nonostante lo stesso tycoon abbia dichiarato di non voler intromettersi in questo scenario.
Dott. Federico Pani