Mediterraneo: un mare di problemi

Il “mare nostrum” è uno dei punti caldi della geopolitica globale e il grande numero di paesi che vivono tra le sue sponde lo rendono un crocevia infinito di interessi economici e strategici, tuttavia le relazioni tra le nazioni appaiono tese e confuse dovendo ognuna di esse fronteggiare problemi di diversa natura. Un “puzzle” di relazioni difficile da ricomporre.


Parte 1: Libia, Egitto, Palestina

Negli ultimi anni le vicende che hanno interessato i paesi mediterranei hanno sempre più frequentemente occupato l’agenda politica internazionale. Dallo scoppio delle cosiddette “primavere arabe” la relativa tranquillità che aveva caratterizzato il bacino mediterraneo nel primo decennio del nuovo millennio ha completamente lasciato il posto alla violenza, alla competizione serrata tra potenze e alle organizzazioni criminali e terroristiche, che dove regna il caos e la legge del più forte trovano sempre terreno fertile per prosperare.

Il paese più problematico al momento è la Libia.

Dopo la fine del “regime” del colonello Mu’ammar Gheddafi e la sua sommaria esecuzione, il paese è piombato in una seconda guerra civile che ha ricomposto le tradizionali e principali divisioni territoriali libiche, cioè la Tripolitania nella parte occidentale e la Cirenaica nella parte orientale. Nelle due regioni si sono formati due governi separati, uno (quello tripolitano) guidato da Feyaz Al Sarraj sostenuto da una parte della Comunità Internazionale (il governo inizialmente era basato a Tunisi essendo Tripoli nel 2015 occupata da un governo di stampo islamista), l’altro (quello cirenaico) guidato da Khalifa Haftar con l’appoggio dell’Egitto stanziato nella città di Tobruk.

La guerra civile e la conseguente anarchia che è dilagata nei territori ha permesso alle organizzazioni criminali dedite al traffico di essere umani di instaurare un business multi milionario sulla pelle delle migliaia di persone che dall’Africa Subsahariana, in particolare dalla Nigeria, dal Ciad, dal Mali, dal Niger, dal Gambia e dal Cameroon passano per la Libia come ultimo “step” prima di essere caricati su imbarcazioni di fortuna in direzione delle coste italiane che a volte non riescono a raggiungere causando centinaia di morti in mare.

Durante il loro viaggio i migranti subiscono costantemente abusi ed è comune che per pagare il viaggio spesso siano costretti a passare un periodo in Libia come lavoratori schiavi.
Le forze governative non hanno la capacità e/o la volontà di contrastare efficacemente il fenomeno. Come è facile intuire la corruzione dei funzionari è una pratica comune, d’altronde in situazioni di guerra tutte le parti in gioco hanno interesse ad avere un tornaconto economico in grado di consolidare le proprie posizioni.

È in base a queste considerazioni che il governo italiano, pur di evitare il continuo sbarco di migranti sul proprio territorio concluso degli accordi con il governo di Al Sarraj per limitare le partenze dalle coste tripolitane. L’efficacia di questa strategia potrà essere valutata solo col tempo, nel frattempo i migranti in Libia vengono incarcerati e venduti come schiavi. Per questo motivo varie voci all’interno della comunità internazionale si sono manifestate contro l’accordo italo-libico.

Da non trascurare inoltre è la presenza di Daech, che nella confusione generale potrebbe trovare il modo di inserirsi all’interno del paese trovando una nuova base da cui operare, visto le difficoltà che “il Califfato” sta incontrando in Siria e in Iraq. Una decisa e leale collaborazione tra le intelligence dei paesi mediterranei è più che desiderabile per contenere questo fenomeno. Il problema è che forse non tutti i paesi mediterranei hanno interesse a contrastare lo Stato Islamico quando non sono i propri interessi ad essere direttamente minacciati.

Uno dei paesi più importanti se non il più importante della regione è l’Egitto.

Anche l’Egitto nel 2011 fu interessato da quelle che le testate giornalistiche definirono “Primavere Arabe”, insieme ad altri paesi come Tunisia, Siria e la già menzionata Libia. Tranne che in Siria le proteste occorse in questi paesi hanno portato alla rimozione dei leader pluridecennali che li avevano guidati.

In Egitto deposto il presidente Mubarak (in carica dal 1981 anno dell’uccisione di Sadat) seguì un periodo di instabilità politica in cui pure formazioni radicali come i Fratelli Musulmani sembravano potessero avere un ruolo dominante grazie all’elezione nel 2012 di Mohammed Morsi, esponente del partito legato proprio ai Fratelli Musulmani.

Nel 2013 tuttavia un colpo di stato guidato dal generale Al-Sisi ha riportato il paese in un clima di tensione che tuttavia ha ristabilito la stabilità e l’ordine nel paese con una forte repressione del fondamentalismo religioso, e quindi dei Fratelli Musulmani, riallacciandosi ad una concezione dello stato egiziano più simile a quella di Nasser.

L’operato di Al-Sisi tuttavia è stato criticato da più parti per quanto riguarda il rispetto dei diritti umani e delle libertà individuali. La morte del ricercatore italiano Giulio Regeni ad esempio fu una delle cause di frizione nei rapporti tra Italia ed Egitto.

Al-Sisi in ogni caso è riuscito a resistere alle critiche e conscio dell’enorme importanza strategica del suo paese (il canale di Suez è il passaggio obbligatorio per tutto il commercio con l’Asia e anche una delle cosiddette “Nuove Vie della Seta” del governo cinese passa da lì) ha voluto ricucire piano piano i rapporti con gli altri paesi mediterranei, Italia compresa, con cui superati o per lo meno momentaneamente accantonati i problemi riguardanti il “caso Regeni” si è tornato a discutere di sicurezza e di energia.

Il paese con cui tuttavia i rapporti rimangono più tesi è la Turchia che secondo le autorità egiziane offre asilo ai dirigenti della Fratellanza Musulmana e si interessa di questioni interne del paese, per questo motivo tra i due paesi sono state interrotte le relazioni diplomatiche nel 2014.

Recentemente il Ministro degli Esteri egiziano Sameh Shoukry ha annunciato la volontà di riaprire il dialogo ed ha prospettato la possibilità di una sua visita ad Ankara.

Per contrastare l’influenza dei Fratelli Musulmani nella regione mediorientale e uscire dall’isolamento internazionale in cui si era ritrovato uno dei partner più importanti per la politica di Al-Sisi è stato Israele.

Il presidente egiziano si è offerto di fare da mediatore tra Israele e i vari gruppi palestinesi per intavolare delle trattative diplomatiche dopo che le operazioni militari israeliane del 2009 (Operazione Piombo Fuso) e del 2014 (Operazione Margine Protettivo) hanno completamente bloccato il processo di pace che dovrebbe condurre alla “soluzione dei due stati” iniziato con gli accordi di Oslo del 1993.

Il premier israeliano Netanyahu, forte del saldo appoggio dell’amministrazione Trump, già in campagna elettorale per le elezioni parlamentari del 2015 aveva dichiarato che sotto il suo mandato non ci sarebbe stato mai uno stato palestinese.

La sua posizione, in opposizione agli accordi di Oslo, è giustificata a suo parere dal fatto che nella situazione attuale non ci sarebbero le condizioni per creare uno stato palestinese che garantisca la stabilità della regione e la sicurezza di Israele.

L’irrigidimento della posizione israeliana sotto la guida di “Bibi” ha causato una radicalizzazione delle posizioni palestinesi, con la conseguente perdita di consensi del partito Fatah di Abu Mazen, erede di Yasser Arafat in favore di formazioni più radicali come Hamas (formazione considerata un’organizzazione terroristica da una consistente parte della Comunità Internazionale tra cui l’Unione Europea) che di fatto governa la Striscia di Gaza ed è considerata il braccio palestinese dei Fratelli Musulmani nonostante recenti dichiarazioni da parte del leader politico Khaled Mashaal finalizzate a moderare la posizione di Hamas (la lotta di Hamas non sarebbe in base a questa nuova posizione una lotta religiosa, bensì una lotta politica) che puntano ad ottenere consenso internazionale per poter rappresentare il popolo palestinese.

Proprio la divisione interna della società palestinese è uno degli ostacoli al processo di pace.

Israele infatti ha trattato finora solo con l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), organo incaricato di governare sulla Cisgiordania e sulla Striscia di Gaza secondo gli Accordi di Oslo, tuttavia la scarsa capacità dell’ANP di governare Gaza rende Abu Mazen agli occhi degli israeliani un interlocutore poco affidabile.

Il conflitto arabo-israeliano che si protrae ormai da più di mezzo secolo è visto con un particolare occhio di riguardo dai paesi europei, che hanno assoluto bisogno di stabilità nella regione per evitare il ripetersi di situazioni tipo quella del “primo shock petrolifero”, quando in risposta alla guerra dello Yom Kippur i paesi arabi aumentarono il prezzo del petrolio e ne limitarono le esportazioni generando in tutta Europa un incremento cospicuo del tasso d’inflazione che mutò completamente la politica economica europea e di conseguenza la politica nei confronti dei movimenti di liberazione nazionale palestinesi.

Da allora la questione palestinese è stata sempre più al centro dell’agenda internazionale, ma la creazione di due stati è ben lontana dal realizzarsi nonostante gli sforzi dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che nel 2012 ha adottato una risoluzione con cui ha riconosciuto alla Palestina lo status di osservatore permanente come Stato non membro, di cui è opportuno segnalare comunque il voto contrario di Stati Uniti, Canada e Israele.

Un buon risultato politico per Abu Mazen di cui però non si vedono i frutti perché bloccati dalle divisioni interne palestinesi e dall’intransigenza israeliana.

Dott. Giuseppe Difrancesco

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